Parlando di Lee Miller potremmo chiederci cosa il film di Ellen Kuras non sia; che cosa è; cosa avrebbe potuto essere (ma purtroppo non è stato).
Per prima cosa non è un biopic sulla vita densa, avventurosa, eccessiva e, in ultima analisi, tragica di Lee Miller. Lee visse come minimo quattro esistenze: prima modella di successo, inarrivabile bellezza eterea che veniva contesa dai più prestigiosi fotografi americani negli anni ’20 del secolo scorso; poi, dopo essersi trasferita in Francia, la donna divenne, passando dall’altra parte dell’obiettivo, fotografa raffinata e sperimentale, compagna e musa di Man Ray, habitué assidua dei circoli surrealisti e dell’ambiente artistico più esclusivo degli splendidi e crepuscolari anni ’30 fra Parigi, New York, il Cairo, città del suo primo marito, e la Provenza; una volta avviata la relazione con Roland Penrose, Lee si trasferì a Londra e durante la seconda guerra mondiale diventò una celebrata fotoreporter sul fronte occidentale; infine, dopo la conclusione del conflitto, Lee Miller si sarebbe trasferita con il marito a Farley Farm House nel Sussex, conducendo un’esistenza più appartata, via via con gli anni sempre più prigioniera di cupi stati depressivi, abitati dall’ossessione del ricordo dei campi di sterminio che la donna per prima fotografò negli ultimi giorni del conflitto.
Il film di Kuras accenna appena, nelle prime sequenze, al mondo disinibito e solare di Mougins, nel sud della Francia, dove Lee frequentava abitualmente Picasso, Paul Eduard e la moglie Nusch, Eilee Agar e Man Ray con la sua nuova fiamma Ady Fidelin e con loro tutta una compagnia eterogenea di artisti e letterati e dove conobbe Penrose, proprio per contrapporre la luce calda della Provenza e l’incoscienza di quell’ultimo scorcio di spensieratezza prima della tragedia con i grigi e i chiaro scuri appannati che domineranno come nota di fondo il resto della narrazione. E siamo così a cosa è il film di Kuras: ciò che interessa alla regista e a Kate Winslet, attrice protagonista nei panni di Lee, ma anche produttrice e ideatrice del film che ha inseguito per un decennio, è rendere partecipe lo spettatore della passione per la verità che animò Lee negli anni del conflitto e la spinse, contro il consiglio e il parere dei suoi cari, a trasformarsi in una corrispondente di guerra, proiettata sui fronti più caldi in un viaggio fino al termine dell’orrore: dal turbinio cruento della battaglia di Saint Mâlo dopo lo sbarco in Normandia, alla Parigi sfregiata dall’occupazione ed esaltata dalla ritrovata libertà, fino alla Germania distrutta e al orrido buco nero dei campi di sterminio. Il film che si avvale di un cast stellare (oltre alla Winslet, Marion Cotillard, Alexandre Skarsgård, Noémie Merlant e Josh O’Connor) poggia su una struttura molto classica, articolata sullo svolgersi di lunghi flashback attraverso cui una Lee Miller anziana e prostrata dagli anni racconta al figlio ormai adulto l’esperienza devastante della guerra che gli aveva sempre tenuto nascosta. Il tutto, nonostante un colpo di scena custodito nel finale, rischierebbe di apparire nella scansione scontata del montaggio alternato, fin troppo paludato se non fosse per la straordinaria interpretazione di Kate Winslet che riesce a trasmettere l’energia e assieme l’ansia di Lee, la sua sensibilità accesa, il suo coraggio e la sua volontà inesauribile di cogliere la crudezza dello scenario tragico che si apre davanti ai suoi occhi con la freddezza oggettiva del suo sguardo, capace però anche di pietà in un mondo dove l’odio sembra prevalere su ogni cosa, come appare nella sequenza che culmina nelle foto strazianti del volto terrorizzato di una collaborazionista francese, rasata e vilipesa da una folla inferocita. Più debole è invece il lavoro della regia. Kuras non brilla per inventiva, appare a volte superficiale, al limite della reticenza, come nella sequenza della foto di Lee Miller nel bagno di Hitler, mentre in altri casi calca eccessivamente la mano, alla ricerca di facili effetti come nella sezione centrale dedicata alla visita di Miller a Dachau. Lee giunge al campo accompagnata dal suo collega Schneider, la macchina da presa la mostra mentre ritrae attonita le baracche sordide, i sopravvissuti scheletrici, i treni con ancora i corpi senza vita dei prigionieri morti durante l’ultimo tragitto verso i campi, ma già la colonna sonora si fa sempre più ridondante e l’indugio rallentato delle riprese quando la donna varca la soglia di un cupo bunker inizia a preparare quello che già sappiamo che si vedrà nel momento in cui si svelerà il controcampo di ciò che sta guardando inorridita Lee: l’ ultima inquadratura sulle cataste di cadaveri ammucchiati come una massa informe di carne. C’è una ambiguità pericolosa in questa scelta di regia: da una parte non si può escludere la volontà di cercare di ricreare l’effetto di thauma (stupore terribile) che colpisce Lee alla vista dell’invedibile, ma d’altra parte è anche abbastanza evidente che la regista sta costruendo un effetto di suspense per lo spettatore, che proprio quella visione attende fin dall’ingresso della cinepresa nei campi, enfatizzando con un manierismo morboso un’immagine assoluta, che non avrebbe bisogno di nessuna sottolineatura. E così, riflettere su questa sequenza ci permette di capire cosa avrebbe potuto essere il film: un’interrogazione aperta sulla potenza, ma anche sui limiti della rappresentazione fotografica davanti all’orrore. La fotografia è testimonianza, ma non è mai uno sguardo neutrale sulle cose, implica sempre un punto di vista, un “come” e un “perché” che si nascondono e innervano ogni scatto, soprattutto se dietro l’obiettivo c’è una artista complessa e problematica come Lee Miller. Una fotografia può essere un lampo istantaneo, ma può implicare anche un’elaborata costruzione, come la celeberrima foto di Lee nel bagno di Hitler, ed anche la finzione può produrre un effetto dirompente di verità, mentre la fredda riproduzione spesso risulta muta. Ma, d’altra parte, fino a che punto si può alterare, intervenire, distorcere o far parlare ciò che fissiamo nell’obiettivo e ancora: qual è il limite, se un limite esiste, fra il rigore necessario e la morbosità ricercata, tra obbligo della denuncia e la pietas del silenzio? Non tutto può essere trattato allo stesso modo, come vecchie foto scoperte in polverosi scatoloni. Troppo impegnato a sottolineare lo spirito ribelle di Miller, refrattario alle convenzioni, il suo impegno e la sua foga inesausta, il film perde per strada alcuni interrogativi importanti che avrebbero dato maggior spessore al personaggio complicando certi cliché anticonformisti che lo caratterizzano e forse gettato anche una luce sui dubbi, i ripensamenti, le angosce che turbarono gli ultimi anni di Lee Miller.
