Dialettica, reticenze e dislivello prometeico in Oppenheimer. Noterelle non esaustive sul film di Christopher Nolan (non è una recensione…)
Partiamo da quello che non c’è. In una giornata di sole offuscato da qualche nube su Hiroshima, un B29 dell’aviazione americana sgancia sulla città giapponese una bomba all’uranio che, dopo 43 secondi di caduta libera nell’aria, scoppia, a qualche centinaio di metri dal suolo, scatenando l’apocalisse. Fra le 70.000 e le 80.000 persone furono uccise sul colpo. Due giorni dopo un errore di puntamento su Nagasaki limiterà le vittime a 40.000 assassinati. Nolan spiega che non ha voluto inserire queste scene nel film perché la focalizzazione della vicenda è incentrata su Oppenheimer e questa scelta di sceneggiatura esclude automaticamente quanto non sia vissuto in presa diretta dal protagonista. È una spiegazione che convince fino ad un certo punto. Chi ha visto il film sa benissimo che esiste un punto di vista “oggettivo” rispetto a quello di Oppenheimer, sottolineato anche dalla decisione di girare queste sequenze in bianco e nero contro il colore, prima pastoso e vivido della giovinezza dello scienziato, poi sempre più essenziale nei contrasti fra luce e ombra nelle fasi di costruzione della bomba nei deserti di Los Alamos ed infine quasi prosciugato da ogni cromatismo nelle sequenze del dopoguerra. Ma, le cose non sono così semplici, Nolan difficilmente cade nella trappola di una presunta oggettività, per cui anche questa prospettiva si scoprirà via, via legata ad una focalizzazione particolare, ma di questo parleremo più avanti. Insomma, c’è forse una certa reticenza? Comunque, al di là delle spiegazioni di Nolan, mi piace invece pensare che l’assenza di quel buco nero, che, come i fenomeni fisici studiati da Oppenheimer, risucchia la luce in una profondità senza fondo, sia dovuto a quello che Gunther Anders chiamava il dislivello prometeico che è un po’ la chiave di volta del dramma umano di Oppenheimer e della nostra stessa età tragica. Anders ci spiega che l’uomo del XX secolo non è più in grado di stare al passo con quanto lui stesso ha creato: gli studi sull’energia atomica hanno permesso all’umanità di ottenere il controllo su di una potenza inverosimile, capace di scatenare le forze distruttive dell’universo per annientare la vita stessa, ma questi straordinari avanzamenti della nostra comprensione delle energie originarie del cosmo, della nostra capacità tecnica di dominarle e di tradurle in strumenti terrificanti di morte non sono stati bilanciati da un analogo progresso, non solo delle nostre capacità di discernimento etico, ma, più banalmente della nostra immaginazione. In più occasioni parlando fra loro gli scienziati del film dicono che solo loro stavano comprendendo la portata immane del lavoro e le conseguenze devastanti delle loro ricerche. Ma si trattava di un pietoso autoinganno o, nel migliore dei casi, di una approssimazione grossolana. Oppenheimer e Teller, che così discorrono, potevano dedurre, da un punto di vista teorico, gli effetti dello scoppio di una bomba atomica o termonucleare, calcolare l’energia liberata dalla deflagrazione, prevederne gli esiti in un contesto ad alta urbanizzazione, ma qual essere umano può immaginare il carico di dolore, angoscia, disperazione che migliaia e migliaia di morti, mutilazioni, scempi sulla carne e sullo spirito possono provocare? Chi può realmente immedesimarsi con questo universo di sofferenza. 80.000 morti sono per noi un numero vuoto perché possiamo immaginarci la sofferenza che può provocare la perdita di un figlio per una madre, possiamo provare a calarci in quello sconforto disperato, ma è oltre le nostre umane capacità provare questo sentimento moltiplicato per cento, per mille, per centomila. E questa incapacità di immaginare, questo difetto congenito di empatia, rischia di renderci insensibili e indifferenti, disposti oppure rassegnati, come i fisici di Los Alamos, ad oltrepassare ogni soglia. “All’idea dell’Apocalisse poi, l’anima rimane inerte. L’idea resta una parola … Ciò che dovrebbe mettere in agitazione oggi – a differenza di Faust – non è, a ogni modo, il fatto che siamo onnipotenti o onniscienti; ma al contrario che, al paragone di ciò che sappiamo e che possiamo produrre, possiamo immaginare e sentire troppo poco … Perché il dislivello tra sapere e capire sussiste senza riguardo alla persona, senza distinzione di rango; nessuno di noi fa eccezione. Il che significa che qui non ci sono competenti; e che il potere dell’Apocalisse è, per principio, nelle mani di incompetenti” (G.Anders, L’uomo è antiquato (I tomo), Bollati Boringhieri,2003 (1956)) ‘Oppenheimer’, indipendentemente dalla sua raffinata costruzione ad incastri, dai continui salti temporali – per altro rigorosamente giustificati dall’impianto narrativo e non equivocamente ambigui come ci aveva abituato un certo cinema di Nolan – segnati dai flashback e dai flashforward, ha la potenza e l’integrità di un film classico, come probabilmente si avvierà a diventare. Con quel tipo di narrazione condivide la presenza di alcuni nuclei problematici forti: in questo caso, da una parte, il grande tema dell’hybris, la potente metafora prometeica, la tensione dell’uomo volta ad oltrepassare i limiti della propria condizione finita, di accedere ad un potere sovraumano, l’ebrezza della conquista, lo smarrimento, la caduta, l’espiazione. Dall’altra la figura dell’individuo solo che combatte una battaglia impari con un sistema ottuso e disumano, che cerca unicamente di difendere e perpetuare sé stesso. È probabilmente proprio la capacità di far leva su questi due temi radicati nell’immaginario comune (e presenti in molto cinema americano), sostenuti da un ritmo vigoroso, senza mai un attimo di respiro per lo spettatore, che spiega il successo di una pellicola, per altri aspetti estremamente complessa e stratificata. Le due anime del film sono in parte intrecciate fra loro nell’andirivieni della narrazione, in parte coincidono con le due sezioni principali del racconto. Così nella prima parte abbiamo la rapida e brillante (ma non brillantissima, teniamone conto) carriera di Oppenheimer: gli studi in Europa, il ritorno a Berkley come apostolo della fisica quantistica in America, le relazioni con gli ambienti della sinistra radicale statunitense fino a giungere, nonostante questo, ma forse proprio per questo, visto che le sue frequentazioni lo rendevano paradossalmente più controllabile e ricattabile, alla guida del progetto Manhattan. Nella seconda parte, dopo l’impiego dell’arma atomica, i ripensamenti e i dubbi (“Ho le mani sporche di sangue” dice con un incauto pentimento Oppenheimer al presidente Truman raccogliendo solo disprezzo e derisione), i tentativi del fisico, condivisi, in vero, con molti altri scienziati, di arrestare o quanto meno rallentare la corsa agli armamenti fino alla trappola di un inchiesta amministrativa per il rinnovo del suo accesso alle informazioni riservate della AEC che si trasformò in una inquisizione staliniana, volta a demolire la sua credibilità sia come scienziato che come uomo. Nel mezzo il centro drammatico, visionario, terribile ed assieme esaltante (terribile, perché esaltante) dell’esperimento Trinity, che raccoglie in un momento di grande tensione e di splendido cinema tutta l’ambiguità del personaggio e della narrazione. Quando si fece esplodere nel deserto del New Mexico la prima bomba atomica, scoperchiando il vaso di Pandora della possibile autodistruzione dell’umanità, le motivazioni che avevano portato Oppenheimer e la stragrande maggioranza degli scienziati ad aderire al progetto Manhattan erano ormai superate. La Germania sconfitta, Hitler suicida nel bunker di Berlino, lo spettro di terribili armi di distruzione di massa in mano a spietati criminali dissolto. Le ragioni per proseguire nella realizzazione del progetto e nell’utilizzare l’arma atomica erano progressivamente slittate verso la necessità di piegare definitivamente il Giappone, riducendo il numero ipotetico di vittime che un prolungamento del conflitto avrebbe provocato o, più cinicamente, di lanciare un segnale della potenza degli Stati Uniti all’URSS, probabile futuro competitor mondiale, e gli scienziati di Los Alamos avevano, per la stragrande maggioranza, con passivo senso di responsabilità, accettato senza molto discutere le nuove motivazioni. Fra i nomi più importanti solo il fisico polacco Joseph Rotblat abbandonò Los Alamos, dimostrando in questo modo che una “obiezione di coscienza” era possibile, ma il suo fu un caso assolutamente isolato. Nel maggio del 1945, quando la Germania era ormai fuori dalla guerra, fu istituito anche un apposito comitato (Target Committe) guidato da Oppenheimer che avrebbe dovuto scegliere i possibili obiettivi di un bombardamento atomico sul Giappone sulla base di una serie di parametri oggettivi: raggio dell’area urbana capace di massimizzare gli effetti degli ordigni, assenza di precedenti pesanti bombardamenti sull’area per evidenziare il potere distruttivo della bomba, probabilità di condizioni metereologiche favorevoli ecc. Gli scienziati indicarono una lista di obiettivi che si restrinsero dopo ulteriori valutazioni a quattro città Hiroshima, Kokura, Nijgata e Nagasaki, lasciando (scaricando?) poi al potere politico, l’ultima parola sulla decisione finale. Eppure, fu gioia vera quella di Oppenheimer e degli altri partecipanti al progetto davanti alla nube di fuoco di Alamogordo. Così ricordò quel giorno un grande fisico che prese parte all’avventura di Los Alamos, Richard Feynman (per chi ha visto il film è quello che suona i bonghi) “Vedi, ciò che accadde a me – ciò che accadde a noi tutti – è che si comincia per una buona ragione, poi si lavora come matti per raggiungere l’obiettivo, ed è bello, è esaltante. E allora, capisci, si smette di pensare; proprio non si pensa più. (R. Feynman, Surelyyou’re joking, Mr. Feynman!, Norton, New York, 1985) Storici della scienza e psicologi della conoscenza conoscono ormai questo fenomeno chiamato “trascinamento tecnologico”. Nel momento in cui si rende disponibile, anche se in linea teorica, una nuova tecnologia distruttiva, si tende (e in questo settore il progetto Manhattan rimane un paradigma imprescindibile) a porre in campo un apparato di ricerca e un sistema organizzativo e logistico volto a testare la possibilità di rendere operativa questa potenzialità, lasciando poi al decisore politico la scelta sull’opportunità effettiva di concretizzare fino allo stadio finale il progetto. Ma le energie impiegate, gli enormi costi sostenuti dal sistema industrial-militare, e non ultime, le soggettive aspettative di successo degli scienziati coinvolti se non anche gli obiettivi di prestigio personale rendono pressoché impossibile ritornare sui propri passi. Già nel film si parla, a questo proposito, della questione della bomba termonucleare, ma un vero e proprio caso di scuola, meno conosciuto, ma sicuramente emblematico, potrebbe essere quello dello sviluppo dei missili intercontinentali MIRV, missili balistici a testata multipla. Negli anni ’60, anche in ragione dei progressi aerospaziali dell’URSS, gli scienziati americani impegnati nella ricerca militare ritennero possibile che i sovietici costruissero dei sistemi ABM per l’intercettazione dei normali vettori (missilistici o aerei) statunitensi. Per questo si pensò, per mantenere alto il potere di dissuasione, all’opportunità di studiare nuovi modelli di razzi a testata multipla, capaci di colpire contemporaneamente, con uno stesso vettore, più bersagli e quindi molto più difficili da intercettare. Quando, qualche anno più tardi, fu però chiaro che la tecnologia missilistica sovietica era ben lungi dal produrre sistemi d’arma in grado di fermare i tradizionali vettori statunitensi, il progetto sulla produzione dei MIRV, che era ormai in fase di realizzazione avanzata, non fu bloccato. I nuovi ordigni furono installati, spingendo i sovietici ad inseguire e superare poi in numero se non in precisione i nuovi missili statunitensi, segnando un nuovo preoccupante step di una incontrollata corsa agli armamenti. Certo, tornando al film di Nolan, dopo la cesura di Trinity, la narrazione, in soggettiva, già a partire dalla notizia del bombardamento di Hiroshima, ci mostra il travaglio di Oppenheimer verso una nuova consapevolezza dell’orrore scatenato, ma il film non avrebbe la sua forza tangibile e la sua complessità problematica se non ci disvelasse anche un’altra prospettiva. Come ogni fabula coinvolgente che si rispetti, la figura di Oppenheimer si scontra lungo tutto lo sviluppo del film con un antagonista. Si tratta di Lewis Strauss (piccolo inciso: la strepitosa interpretazione di Robert Downey jr. oscura quella già notevole di Cillian Murphy nella parte di Oppenheimer), presidente della Commissione per l’energia atomica deli Stati Uniti (AEC), vero rovescio speculare della figura di Oppenheimer: come il fisico americano era stato il rampollo brillante di una ricca famiglia newyorkese, Strauss era il tipico self made man, l’uno proiettato al vertice della fama e agli onori delle cronache, l’altro un personaggio apparentemente incolore, rappresentante emblematico del deep state e delle sue trame (“Il potere si esercita sempre nell’ombra”), il primo geniale, problematico, tormentato, il secondo cinico, amorale, rancoroso. Fu Strauss in quanto presidente dell’AEC, come spiega bene colorando la trama di risvolti gialli Nolan, l’anima segreta del processo che annientò Oppenheimer, ma, per una sorta di contrappasso beffardo, questo complotto, una volta scoperto, gli si ritorcerà contro, impedendogli di accedere all’obiettivo della vita, l’ingresso nel governo del presidente Eisenhower. Fra le elaborate simmetrie su cui è costruito il film di Nolan, la più evidente – anche per le scelte cromatiche della contrapposizione fra il colore e il bianco e nero – è quella che giustappone l’inchiesta contro Oppenheimer a quella che il senato americano svolse sull’attività di Strauss per valutare l’opportunità politica del suo ingresso nel governo degli Stati Uniti e la tragedia del fisico americano si rispecchia nel risibile naufragio delle illusioni del politico, dando allo spettatore più ingenuo, se non la soddisfazione dell’happy end, almeno la consolazione di una giustizia più equa. Tuttavia, ancora una volta le cose sono più intricate di quanto non sembri e Nolan opera un nuovo spiazzamento dialettico perché sono proprio le parole furiose di Strauss, ferito dal rifiuto del Senato di concedergli il nullaosta per accedere al governo, che gettano una nuova luce inquietante sulla figura di Oppenheimer rendendo meno scontato il processo di redenzione che sembrava fino allora al centro del racconto. Strauss ci parla della cieca ambizione di Oppenheimer, frustrata dal fatto di essere arrivato ai quarant’anni senza nessun reale risultato prestigioso, che gli diede l’energia per gettarsi a capofitto, e, in prima battuta, senza troppi scrupoli morali, su un progetto che avrebbe potuto farlo passare alla storia; insinua il sospetto, non privo di fondamento, che la arrendevolezza dello scienziato durante il procedimento persecutorio dell’AEC, che Strauss stesso aveva, a questo punto, ingenuamente architettato, aveva elevato Oppenheimer al ruolo di vittima sacrificale di un apparato spietato, contribuendo in questo modo, grazie alla trasfigurazione dell’espiazione, a far sì che il suo genio potesse essere ricordato solo per aver portato la scienza a Trinity e non per Hiroshima e Nagasaki. Oppenheimer di Nolan si fa così vettore di mitizzazione e demitizzazione assieme. E ritorniamo all’inizio, e a ciò che è centrale e ciò che manca nel film di Nolan. E alle sue feconde reticenze e ambiguità.
