Estranei

“La sua solitudine era popolata dai fantasmi del suo passato, ed assieme inquietata dagli spettri del suo presente”. L’incanto, ma qualcuno potrebbe dire l’artificio, su cui si regge questo strano film di Andrew Haig sta tutto nel prendere sul serio questa metafora usurata, animandola, grazie all’intuizione originaria del romanzo di Taichi Yamada e alla potenza evocativa del cinema, di una vividezza iperrealistica e straniante.

Adam è uno sceneggiatore che si avvicina al crinale della mezza età. Vive in un grande condominio che sembra deserto, da cui vede in lontananza lo skyline luminoso e frenetico di luci di Londra. In una solitudine ovattata dai toni bluastri della fotografia, si aggira per il suo appartamento vuoto, sbocconcella apatico biscotti, rovista fra vecchie foto, indugia davanti allo schermo bianco del computer, incapace di andare oltre il titolo del suo script, ascolta dimenticati hit degli anni ’80 fino a che Harry suona alla sua porta. Manifestamente brillo, il giovane gli offre di condividere la sua bottiglia di whiskey e, in modo appena più sfumato, un po’ di sesso facile. Ma la sua spontaneità è impacciata, il suo fare disinibito è assieme patetico e goffo. Una solitudine, ancora più amara e disperata di quella di Adam, si nasconde dietro il sorriso esuberante del ragazzo che fa eco ironicamente al testo del brano dei Frankie goes to Hollywood che Adam stava ascoltando: “Keep the vampires from your door.” Assieme un provocatorio avvertimento, ma anche una desolata richiesta d’aiuto. A cui Adam, non dà però seguito, anche se l’incontro con il giovane turba l’isolamento dell’uomo, innescando un fantasmatico viaggio all’indietro nel tempo. Adam ritorna nel quartiere della sua infanzia per trovare nuova ispirazione per il racconto su cui stava lavorando e qui incontra i suoi genitori, morti tragicamente quando lui era ancora un ragazzino in un incidente d’auto, che lo accolgono nella loro vecchia casa, come avrebbero potuto fare se il figlio fosse appena tornato dal college o da un lungo viaggio. Il tempo si è cristallizzato, il papà e la mamma di Adam appaiono come erano allora, praticamente coetanei dell’Adam adulto, come emersi da un limbo, consapevoli della loro morte, un po’ esitanti, ma amorevoli e vivamente interessati alla vita del figlio che avevano smarrito, alle sue scelte, ai suoi sentimenti. Il fascino di questo incontro è tutto racchiuso in garbati accenti che sono forse la cosa più commovente del film: il pudore di Adam davanti a sua madre, l’affettuoso disagio della donna di fronte alle confessioni del figlio, l’imbarazzo del padre nel rivelare i suoi sospetti velati sulla “diversità” dell’Adam bambino. Adam può così riannodare i fili di discorsi mai fatti, può confessare ai genitori la sua omosessualità, ma soprattutto i suoi turbamenti adolescenziali, spiegare i silenzi e i pianti nascosti, ottenere finalmente la loro comprensione e comprendere le loro debolezze, ravvivare una complicità che non era mai del tutto sbocciata. E riuscendo a fare i conti con il proprio passato, Adam può aprirsi al presente e all’amore per Harry che germoglia assieme passionale e tenero, splendidamente avvolto nella luce pastosa e morbida della elegante fotografia di Jamieu D. Ramsay. Ma c’è qualcosa che non quadra in questo sviluppo che, incorporato lo spaesamento dell’incontro del presente con il passato, sembrava a poco a poco dissolvere l’estraneità che isolava Adam dal mondo, rendendolo straniero a se stesso. Invece, inaspettatamente, i confini fra realtà e sogno, o meglio incubo, cominciano a confondersi con insistenza. Le sezioni narrative si aggrovigliano in un intreccio sempre più incoerente dei tempi mentre, anche fin troppo presente, la colonna sonora insinua un’atmosfera di sospensione ed ansia che non corrisponde a ciò che mostrano le immagini, fino ad un sorprendente, o forse annunciato, rovesciamento finale.

Ruotando attorno alla magia di un tempo ritrovato, Haig gioca ambiguamente su due piani, non solo narrativi – il rapporto fra Adam e i suoi genitori e la storia di amore con Harry -, ma soprattutto di realtà, lasciandoci nell’indecisione se tutto ciò a cui abbiamo assistito, dal momento in cui Harry ha lasciato deluso e sconfitto l’appartamento di Adam, sia il lento e progressivo aprirsi del protagonista al mondo attraverso l’amore (per i suoi genitori, per il suo amante) o il suo richiudersi nella follia, il superamento dell’estraneità o lo sprofondare nella sua solitudine allucinata come ultima risorsa per sfuggire dalle proprie responsabilità.  Una indecisione che è anche della sceneggiatura che non sembra sapersi risolvere per uno dei due corni del dilemma: affrontare i fantasmi del proprio passato, superare l’estraneità che ci abita è l’unico modo per aprirci agli altri o forse il cammino dell’introspezione è solo, come l’amore, un’illusione, una fata morgana, una rifrazione di specchi che riflette un vuoto ulteriore, come sono spesso le immagini riflesse dei personaggi nel film, attraverso cristalli o giochi di luce? Nel romanzo originario di Taichi Yamada gli spettri, quelli dei genitori e quello (si va beh, ormai ve lo dico) dell’amante del protagonista, rappresentavano freudianamente, anche se non senza echi alla cultura shinto giapponese, il ritorno del rimosso: nel primo caso benevolo e rassicurante, anche se regressivo (non a caso l’Adam del film si ritrova a letto con i suoi genitori con il pigiamino della sua infanzia…) nel secondo caso esplicitamente sinistro, dato che la donna (nel Giappone degli anni ’80 evidentemente non era il caso di parlare di omossessualità) uccisa dall’indifferenza del protagonista che l’aveva rifiutata, torna per vendicarsi e risucchiarlo verso la morte. Haig elimina tutte le componenti gotiche del racconto, ed è una scelta legittima a vantaggio del trionfo dell’amore, ma l’Adam di Haig sembra non aver nessun problema davanti al ritorno del rimosso, con cui può tranquillamente dormire abbracciato fra le stelle. Ora, se la cosa risulta più credibile nel rapporto con i genitori, che rinvia alla dimensione del rimpianto (chi non vorrebbe fare pace con i propri genitori morti, dire loro quello che non è riuscito mai a dire in vita e ottenere la loro benedizione?) lo è un po’ meno con il rimorso che di solito perseguita come l’irrevocabile senso di colpa. Haig in nome dell’amore supremo sorvola su questa complessità, calando su tutto un velo di ambiguità indecidibile, ambiguità, verrebbe da dire in questo caso, non feconda, ma sterile, che si avvita su se stessa, suggerendo il sospetto che forse abbia prevalso in Haig la fascinazione dell’indeterminato con un finale un po’ banale fra le stelle remote dell’universo nel potere della luce dell’amore (Dreams are like angels, they keep bad at bay, bad at bay, Love is the light, cantano i Frankie goes to Hollywood mentre la camera viene risucchiata dagli spazi siderali) piuttosto che la volontà di affrontare, non necessariamente sciogliere, gli snodi problematici che aveva evocato.

Così, più che per il suo sviluppo, il film di Haig si apprezza per le sue atmosfere spettrali ed esangui, ma assieme carnalmente sensuali, per la malinconia che lo pervade e che traspare dalle ottime interpretazioni dei suoi attori, per il senso di fragilità che ciascuno di loro, ciascuno a modo proprio, riesce ad esprimere, fragilità di esistenze solitarie che hanno un disperato bisogno di aprirsi all’altro, ma nello stesso tempo la profonda paura di esporsi. Frammenti, sprazzi anche felicemente incongrui, come il dialogo fra madre e figlio a letto, in una combinazione stridente fra affetto e sensualità, che ritrovano se stessi e una intimità forse mai raggiunta prima in un tempo fuori del tempo, irreale, ma più vero del reale, che è assieme la dimensione del ricordo e del desiderio.

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