Ma nuit

Cosa fanno i giovinastri nelle notti parigine? Si annoiano in feste inutili, fumano, bevono, si ubriacano, vagano per la città, si confessano le proprie angosce, almanaccano sul futuro che attendono e temono. Si amano, con titubanza e pudore. Non molto diverso da quello che capitava nel “barbaro veneto” di quarant’anni fa (“o giù di lì” direbbe Guccini).

Trama esile esile, tutta giocata in una notte, in una malinconica città di solitudini da Place de la Repubblique, alla Gare di Nord, dal canal Saint Martin alle rive della Senna, mentre sullo sfondo ristagnano un dolore che non passa e l’ansia strisciante per le ferite di una violenza che ha marchiato in modo indelebile la città. Girato in un formato 4:3 che stende una patina di nostalgia inventata alle riprese, il film si regge sul volto preraffaellita di Lou Lampros, sui suoi silenzi, sulla sua inquietudine, sul suo smarrimento. I dialoghi sono futili, e questo ci può anche stare, e talvolta scivolano pericolosamente sul letterario, ma il ragazzo che accompagna gentile e discreto Lou nella sua notte cita, per fortuna, Nina Simone e non Hugo von Hoffmannsthal. Ma, ammettiamolo, quante volte ci siamo pomposamente parlati addosso in quell’età che giustamente Paul Nizan ci diffida dal considerare la più bella della vita («J’avais vingt ans. Je ne laisserai personne dire que c’est le plus bel âge de la vie»).

E così, sospendendo non solo l’incredulità, ma anche per un momento cinismo e disincanto, seguiamo Lou nella splendente mattina, il giorno dopo, pattinare per le vie di Parigi e toccare con un dito il cielo.

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