Film al femminile, come solo Almodóvar riesce a girare (anche se in questo caso il maschio ottiene un tardivo e immeritato riscatto), Madres parallelas è solo apparentemente un film sulla maternità. In modo più profondo la domanda che ci pone Almodóvar è: quanto conta l’identità nelle nostre storie. Quanto conta l’identità nella Storia? L’identità personale, sessuale, l’identità storica di una nazione? In un presente che si affanna spesso a creare identità fittizie di un “noi” creato solo sulla contrapposizione all’ “altro”, Almodóvar ci spiega che le cose sono molto più complesse. L’identità è qualcosa di mobile, che si costruisce, si scopre con angoscia o meraviglia, ma non è certo un orpello da cui prendere congedo nella fluidità postmoderna, perché le sue radici, a volte, sono profonde e dolorose, come una fossa comune ricolma di cadaveri affastellati. E perciò, in questi casi, deve essere difesa, protetta dall’oblio che tutto appiattisce e uniforma. E Almodóvar ci racconta tutto questo escogitando una delle sue storie improbabili, presa di peso da un feuillton ottocentesco, ma compiendo il solito prodigio di dare vita e umanità alle marionette di un destino bizzarro, tanto che guardando il volto dolente di Penelope Cruz o il suo sorriso luminoso si smarrisce anche l’ultimo briciolo di distacco critico sprofondando in quella straniante sospensione dell’incredulità che è la magia del cinema. Forse si abuserà, come sempre per Almodóvar, della parola melò, ma ormai il regista spagnolo è oltre quella soglia: rovesciamenti e agnizioni propri di quel genere hanno smarrito per strada le tinte forti dei vecchi lavori di Almodovar e forse anche la lieve ironia che li sabotava dall’interno. Così come per gli interni e gli arredi, la cifra pop della fotografia di Almodovar si è smorzata. I toni sgargianti, i colori chiassosi hanno lasciato il posto ad accostamenti ricercati, non perdendo in luminosità, ma abbandonando la superficie per acquistare profondità. E per stringere poi l’obiettivo nei primi piani del volto timido e sperduto di Milena Smit, nella gioia e nel dolore di Penelope. Almodóvar, come sempre perdutamente e platonicamente innamorato delle sue attrici e di Penelope Cruz in particolare (come del resto, nel caso di Penelope l’avrete probabilmente intuito, anche il vostro umile recensore)
