Maestro

Come il sipario di un palcoscenico abbassato, una cortina che oscura una finestra, lasciando appena intravedere spiragli di chiarore soffuso, introduce il film di Bradley Cooper. L’esplosione di luce al levarsi della tenda, che accompagna la felicità di Leonard Bernstein per l’assegnazione della prima direzione d’orchestra alla Carnegie Hall, precipita a cascata nel vertiginoso piano sequenza che incalza il musicista esaltato: dalla camera, condivisa da Leonard con il suo amante, fino al grande auditorium vuoto, rimbalzando sul proscenio per ritornare sul protagonista, con i tagli bui e incongrui delle porte che si spalancano, quasi salti nel vuoto nella corrente di un fiume impetuoso. Una grande pagina di abilità registica che dà il tono e il ritmo alla prima parte del film di Bradley Cooper: esuberante, fluida, febbrile, tutta giocata sulle movenze della commedia che tratteggia, assieme all’avvio della prorompente carriera del musicista, la giocosa nascita dell’amore fra Leonard e Felicia Monteallegre, la sua futura moglie. Poi un improvviso rallentamento, che coincide con l’esecuzione del Adagietto della V sinfonia di Mahler, proietterà l’enorme ombra del direttore sulla minuscola figura di Felicia dietro il palcoscenico, quasi a sottolineare con un simbolismo sicuramente ricercato, ma anche piuttosto ingombrante, l’ingresso nella seconda parte: dalla leggerezza spensierata dell’innamoramento, al dramma ed infine alla tragedia. Dal bianco e nero, vagamente intriso di nostalgia, si passa ad un colore saturo, il ritmo rallenta mano a mano che emergono i tradimenti di Bernstein, la sofferenza di Felicia, l’ipocrisia necessaria, ma soffocante. Lo sguardo del regista, quasi in opposizione alla scelta cromatica, si fa più freddo, distaccato. Si introducono campi lunghi che seguono da lontano le risentite recriminazioni di Felicia e le penose spiegazioni di Leonard, mentre si scava un solco sempre più profondo fra i due, con il musicista che, con l’avanzare dell’età, si sente sempre più compresso in ruoli sociali e artistici che gli vanno troppo stretti e la donna che gli rinfaccia (non si capisce con quanta onestà) più che i tradimenti con i bei giovanotti della sua corte, la sua incapacità di concentrarsi, di mettere veramente a frutto il suo talento. Ed in effetti forse proprio qui affiora l’aspetto più debole del film di Cooper. In una intervista che si trova al centro della pellicola e che ha quasi il valore di rivelare l’intento riposto del regista (mossa forse infelice, meglio far vedere che dichiarare…) Bernstein confessa al suo interlocutore un tormento interiore, un sentimento di futilità che riesce a stento a tenere a bada grazie al suo amore per la musica. In un’altra intervista, nella prima parte del film, in modo più ironico e scanzonato, si anticipava questo passaggio quando Leonard rivelava candidamente una sorta di natura schizofrenica: vivace, espansiva, teatrale come direttore, introversa, meditativa, combattuta come compositore. Ecco, di questa duplicità il film di Cooper, forse perché un po’ prigioniero del suo stesso virtuosismo, ci mostra poco, se non quando, con la malattia e la morte di Felicia, la narrazione, grazie però alla intensa interpretazione della Mulligan più che a quella sempre un po’ sopra le righe dello stesso Cooper, assume i toni di un sofferto melodramma. Il rischio diventa perciò quello di presentare il ritratto di un Bernstein, appassionato amante della vita, trascinante e fervido, ma carente di profondità, effervescente, ma monocorde. Brillante e ricco di effetti, eppure privo di una reale e dolorosa complessità. Un po’ (e questa è una cattiveria, oltre che un parere strettamente personale e discutibile, lo riconosco) come accade per molta della musica dello stesso Bernstein.

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