Ronald Colman è ritornato a Shangrillà. Solo che, dagli anni Trenta di Orizzonte Perduto di Frank Capra, le cose sono cambiate, ça va sans dire in peggio. Colman non è più un diplomatico elegante e appassionato pacifista, ma un mercante d’armi, per fortuna abbastanza sprovveduto e inetto, con il vezzo di collezionare vecchi fucili. Anche il paradiso immerso fra le cime inviolate dell’Himalaya ha perso un po’ del suo fascino misterioso, ora coincide con il fazzoletto di terra del Bhutan che inizia, verso la metà del primo decennio del nuovo millennio, ad essere contaminato dalla globalizzazione e le prime timide aperture al mondo esterno gli permettono di godere dei più importanti benefici della cultura occidentale: la democrazia, la coca cola e i film di 007. Mentre così piccoli capannelli di sfaccendati si radunano, sorseggiando “acqua nera”, in un bar di uno sperduto villaggio fra le montagne, a seguire le peripezie di 007, assimilandone immediatamente i fondamentali (“Il suo nome è Bond. James Bond”), il re del paese, assoluto ed illuminato come un despota di un singspiel mozartiano, decide di far dono al suo popolo della democrazia. Solo che, anche per un buddista mite e pacifico, è più facile familiarizzarsi con i massacri di malvagi di un film di 007, piuttosto che con i marchingegni astrusi del voto popolare, per cui, previdente e magnanimo, il re organizza elezioni simulate per ammaestrare il popolo alla libertà. C’è così questo villaggio devoto, ma un po’ recalcitrante, che deve essere educato ai valori superiori dell’illuminismo occidentale, un maestro Vajaryana silenzioso, che si risveglia da una meditazione decennale per ordire un misterioso machiavello per controbilanciare gli effetti negativi delle elezioni, il monaco suo discepolo, non proprio un modello di acume, investito dal superiore di una difficile missione, il mercante d’armi e la sua simpatica guida locale -classico esempio di un personaggio di mediazione, a cavallo fra il vecchio e il nuovo – e i dissapori e i conflitti che iniziano ad emergere nella comunità locale, spaccata fra il quieto adagiarsi nella placidità di un tempo immobile e la smania di cogliere le nuove opportunità della modernità incombente. E tutto ruota attorno alla disputa per accaparrarsi un vecchio fucile della guerra di successione americana, non si sa come finito in quelle lande sperdute. Minaccia di morte o speranza di redenzione?
Delicato, ironico, leggero, il film di Pawo Choyning Dorij bandisce programmaticamente dramma e profondità, si adatta nel ritmo ai paesaggi sconfinati, ripresi in campi infiniti all’interno di cui si muovono lente figure solitarie, ma nello stesso tempo è preciso negli incroci fra i protagonisti e negli scambi di ruoli come una commedia americana, anche se i personaggi, non entrano ed escono dalle stanze di un appartamento di Manhattan o salgono su taxi gialli, ma girano ritualmente attorno ad uno stupa e ascendono ad uno dzong. All’interno di una trama esile, esile, dove però la regia si toglie anche il lusso di creare un po’ di pacata suspence sull’impiego del fucile conteso, il merito maggiore di Pawo Choyning Dorij è quello di porre a confronto due effetti reciproci di straniamento. Da un lato, siamo noi a sorridere delle bizzarre arretratezze, delle ingenuità buffe di questi neofiti della democrazia, addestrati a parteggiare a comando per il partito blu o quello giallo, mentre se ne starebbero molto più comodamente ad intagliare falli giganti per le loro cerimonie religiose, dall’altro lato però possiamo anche avvertire, con un po’ di sorpresa, che si sta ridendo anche alle nostre spalle di cinici e disincantati occidentali. Sicuramente, in una operazione del genere, è sempre in agguato l’effetto Shangrillà, l’esotizzazione orientalista dell’altro, in questo caso, fatta dall’ ”altro” – un regista bhutanese, formatosi lavorando per grandi riviste come Esquire e Life – a nostro uso e consumo. C’è in effetti una idealizzazione un po’ troppo semplice di una comunità organica preservata dai mali dell’individualismo egoistico e dalla brama dell’appropriazione, ma in compenso un piccolo dubbio sull’opportunità di esportare i nostri valori, non solo con le armi, ma anche con l’affabile forza della persuasione e del marketing, è bene che sia instillato. La democrazia, diceva Churchill, è la peggiore forma di governo, eccezione fatta per tutte le forme sperimentate fin’ora. Sicuri che sia mai stato a Shangrillà?
