Parthenope

Parthenope, l’ultima fatica di Sorrentino è una trappola.

Immaginatela, a seconda della vostra passione o avversione per il regista napoletano, come una stupefacente macchina da scena barocca o come un volgare gioco delle tre carte, dove mirabolanti inganni o truffe da quattro soldi irretiscono lo spettatore facendogli vedere quello che effettivamente vuole vedere (ma forse non è): un capolavoro inquietante e sensuale o una sbrodolata narcisistica senza ne capo ne coda. Ma il vostro umile recensore ha in serbo una contromossa appropriata e così, a seconda del vostro grado di affezione per Sorrentino, potete leggere due recensioni (paghi 0, prendi 2) che si adattano alla perfezione (andate a rileggervi la citazione di Woody Allen ad esergo del Blog) al mood con cui siete usciti (o vi apprestate ad entrare) in sala. Siete pronti: Pillola rossa e entrate nella tana del Bianconiglio  o Pillola Blu e fine della storia

Il sorriso di Parthenope

Parthenope nasce dall’acqua, elemento fluido, principio di generazione di vita e di mobilità. Parthenope è inafferrabile. Come il mare è sempre identico e sempre diverso, Parthenope è folgorante di bellezza, una divinità che emerge dalle acque, e così si ripresenterà nei primi piani che l’adoreranno per tutta la durata del film, ma assieme è una ragazza dai lunghi capelli ondulati e dagli occhi scuri, semplice, immediata. Questa Parthenope non ha nulla di misterioso, nulla di enigmatico, ma riluce della tranquilla e spudorata sfrontatezza della gioventù, quando tutto è ancora possibile ed il futuro è immenso.

Parthenope come il mare accoglie, ma come il mare è forza ed energia. Parthenope è la seduzione ed assieme la ricerca. Centro dei desideri di coloro che la circondano, siano questi fratelli adoranti, scrittori alcolizzati o miliardari pacchiani, anziani magnati e donne sfigurate, camorristi spavaldi o laidi prelati, Parthenope è il precipitato dei loro sogni e come un sogno a volte è evanescente. Il sorriso del gatto del Cheshire di Alice nel paese delle meraviglie che persiste equivoco quando anche il felino è scomparso. Ma Parthenope è fisicità sensuale debordante ed è soprattutto lei stessa soggetto desiderante, protagonista di una quête continua senza oggetto perché “se il desiderio è mistero il sesso è il suo funerale”. Raggiungere l’obbiettivo del proprio cercare, esaurire lo slancio, la passione, il fervore è un po’ come morire a se stessi. Parthenope è un essere in tensione, del desiderio ha la forma, né umana, né divina, ma, come insegnava Platone, demoniaca, ciò che collega umano e divino nel mito. Ed è questa la spiazzante atmosfera in cui si è avvolti nel cinema di Sorrentino e ancora più profondamente in questo film. Siamo dentro la realtà, avvertiamo in una esperienza immersiva il calore del sole, la levità della brezza che muove le tende alle finestre, gustiamo il sapore salato del mare, e percepiamo la carnalità pagana dei corpi, ma nello stesso tempo siamo al di fuori del tempo, in un mondo in cui sogno e veglia si scambiano continuamente di posto, in una fabula allusiva dove il regista demiurgo gioca con gli archetipi come con i balocchi. Ed il film di Sorrentino vive della meraviglia di questa contaminazione d’opposti, come in una macchina surrealista incanto e orrido si incontrano facendo scaturire dal loro attrito la scintilla di una bellezza aliena ed assieme familiare. Perturbante e delicata come il sorriso di Parthenope davanti ad un mostro gentile fatto di acqua e sale, come il mare. E importante non è capire. Parthenope ci insegna che “la verità è inafferrabile” ed è probabilmente inutile cercare di comprendere il vortice di simboli, allusioni, tracce, sentenze, enigmi, inganni, fuochi fatui ed invettive di cui è disseminato il film di Sorrentino. L’importante è vedere. Anche se vedere è la cosa più difficile e dolorosa. Si comincia a vedere “quando viene a mancare tutto il resto” spiega sconsolato il prof. Marotta a Parthenope, quando finalmente risponderà alla sua domanda sul significato dell’antropologia (Già le aveva dato un indizio importante quando le aveva detto che Billy Wilder era un grande antropologo). Vedere sarebbe così un po’ come la filosofia, come la nottola di Minerva che si alza sul fare del crepuscolo. Come lo sguardo disincantato, forse rassegnato di un’anziana Parthenope sulla sua vita. Ma non è ancora finita: perché magica e burlesca una nave di tifosi in festa, come la nave dei folli di Erasmo, è capace di stupire ancora Parthenope e suscitare questa volta il suo riso. Un riso fresco, spontaneo, liberatorio. Ancora una volta Sorrentino, benevolo, con il suo film ci suggerisce una scorciatoia. Vedere è anche l’immediatezza dell’immagine in cui ci si perde. Non importa capire, il segreto sta nel fatto che le immagini sono lì semplicemente perché sono meravigliose, non rinviano a nulla. Sono il vuoto. Ma è un vuoto che, come il sorriso di Parthenope, è una promessa. Un vuoto che spetta a noi riempire: con i nostri sogni, i nostri desideri, le nostre illusioni.

È del poeta il fin la Meraviglia

Sapendo di fare cosa grata al prof. Marotta partiamo dai classici, cioè da Dwight McDonald e Umberto Eco. Nel 1960 McDonald scriveva un libro fondamentale Masscult e Midcult dove il professore americano spiegava che l’industria culturale stava progressivamente affiancando ai grossolani prodotti dell’industria di massa, riservati ai palati rozzi delle masse incolte, merci più raffinate che mimavano alcune caratteristiche più abbordabili delle produzioni elitarie della cultura alta, per dare l’illusione al vasto pubblico degli emergenti ceti medi di poter accedere e godere di un’esperienza artistica esclusiva che, in realtà, non sarebbe stata alla loro portata. Umberto Eco, associando questi prodotti al kitsch, ne dava una definizione lapidaria. Il Midcult: “1) prende a prestito procedimenti dell’avanguardia e li adatta per confezionare un messaggio comprensibile a tutti; 2) impiega questi procedimenti quando sono già noti, divulgati, frusti, consumati; 3) costruisce il messaggio come provocazione di effetti; 4) lo vende come Arte; 5) pacifica il proprio consumatore convincendolo di aver realizzato un incontro con la cultura, in modo che esso non si ponga altre inquietudini”. Ora, quel 50% del film di Sorrentino che si presenta con le fattezze, i movimenti di macchina, le inquadrature ricercate, la luce, i colori, i sospiri e gli affanni di uno spot di Dolce e Gabbana non sarebbe poi così male. Se ci fosse un po’ di ironia. Il problema è l’altro 50% del film, dove personaggi che oscillano fra l’improbabile e lo scontato (“Era già tutto previsto”) sciorinano con compassata sicumera aforismi che dovrebbero avere la profondità spiazzante di un koan zen, ma per lo più sembrano massime ricopiate dall’almanacco di Frate Indovino. Ovviamente non parliamo di cose futili come la trama. Parthenope, Celeste Dalla Porta, che è in vero una splendida figliola, si aggira fra le cartoline di Capri e Napoli, sorridente. Così ambiguamente, elusivamente, provocatoriamente sorridente che a volte si teme che abbia fatto una paresi. Ma non è così, perché ci sono, come minimo, altre tre espressioni che Sorrentino le permette di sfoggiare. Stupita, perplessa, addolorata. E che non si allarghi troppo. E così insomma Parthenope, una novella Bela Baxter mediterranea e carnale, ma senza l’indefessa passione per la conoscenza del personaggio di Lanthimos, consuma la sua giovinezza dorata in un simulacro di sperimentazioni, perché in effetti non c’è una particolare curiosità nello sguardo di Parthenope se non per se stessa che vive quelle esperienze curiose. Esperienze che sembrano partorite da un software di intelligenza artificiale acquistato su Temu (9,99€, spese di spedizione comprese)  programmato sui parametri “cinema di Sorrentino” e “è del poeta il fin la meraviglia”. In questo modo vengono generati una serie di sketch che si risolvono nel contrasto, non proprio sorprendente (“Era già tutto previsto“), di splendore e miseria, bellezza e orrido. Abbiamo così l’abbagliante Parthenope che incontra la maestra di recitazione sfigurata – ma celata dietro burka e velette ; Parthenope che attraversa i vicoli dei bassi napoletani con il camorrista tamarro di turno a cui i bimbi baciano le mani, per assistere all’amplesso fra giovani ignudi, belli come Romeo e Giulietta, davanti ad un pubblico di parenti bavosi e grotteschi; Parthenope che si concede, ricoperta degli ori di San Gennaro come la Madonna, ad un laido e orripilante cardinale, che parla come un Oscar Wilde di Scampia. Fino all’apoteosi, quando il professore Marotta (di cui sopra) con cui Parthenope si laureerà e con cui la ragazza stringerà un sodalizio di stima e affetto sincero, le farà “vedere” il fenomeno di suo figlio, colpito da una misteriosa malattia. Ora, non bastava esporre un poveretto afflitto da qualche triste morbo? E che storie, mica si fa neorealismo qui? Dato che “è del poeta il fin la meraviglia”, bisogna strafare. Cosa avrebbe fatto in un caso simile Omero? E ne viene fuori la scena più fasulla del film. E ancora una volta, passi se i personaggi se ne fossero rimasti in rispettoso silenzio. “È fatto di acqua e sale”. “Come il mare”. Da cui nasce Parthenope. Bellezza e orrore. Orrore che si prova di fronte a ciò che ripugna, ma anche di fronte alla manifestazione tremenda del sacro, al numinoso terribile dove gli opposti– splendore e terrore – si toccano. E poi attenzione, il Dio (cristiano) non ama il mare (pagano), detta da un cardinale blasfemo dopo i titoli di coda. Capito il link? No? Non importa. L’importante è alludere, siamo davanti ad un’opera d’arte, mica ad un libretto di istruzioni per una lavatrice. E comunque fondamentale è vedere. È questa la risposta alla domanda “che cosa è l’antropologia” che in modo petulante Parthenope ripeterà fin dal primo esame al suo professore, per ricevere la sospirata risposta ad una quindicina  di minuti dalla fine del film. Anche qui l’arguto senso celato non sarà sfuggito ai più. Vedere, come al cinema. Peccato che per due ore si sono viste immagini folgoranti e seducenti, ma opache. Che non dischiudono nessuno spiraglio, non aprono nessuna porta, se non all’interno dello stesso spazio chiuso autoreferenziale di quelle stesse immagini. Degli specchi che si riflettono e riflettono il loro riflesso. Un bellissimo scrigno tempestato di gemme e pietre preziose. Non vi sforzate ad aprirlo. Dentro non c’è nulla.

Questo articolo ha 6 commenti.

  1. Annalisa Bruni

    In estrema sintesi: Irritante, pretestuoso, stucchevole, vacuo, alla fine inutile. Non mi è piaciuto per niente.

    1. Ferdinand 1912

      Beh, a me che piace l’essenzialità scabra di Bresson, lo stile wabi-sabi di Ozu, o la raffinatezza sobria di Rohmer puoi ben capire verso che pillola propenda. Ma a Sorrentino bisogna riconoscere un merito. O si rimane incantati dai suoi film, o profondamente irritati.

  2. Michele

    Se avevo qualche dubbio,me l’hai fugato.non andrò a vederlo.

  3. Sebastiano

    Film orribile!

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