Past lives

Illuminazione soffusa in un locale chic. Nella luce pastosa dei 35 mm, inquadratura frontale di una donna fra due uomini. Lei è orientale, come l’uomo a cui si rivolge, assieme spigliata e seducente, ci vuole poco a capire che li lega un feeling insinuante, una complicità condivisa. Alla destra della donna, l’altro uomo, un occidentale, silenzioso, impacciato. Evidentemente fuori posto. Una voce off, quella di uno spettatore un po’ indiscreto, commenta la scena cercando di indovinare i legami fra le diverse persone. Degli amici? Dei colleghi? O più probabilmente una coppia che si sta formando e forse una che si sta spezzando? Strano che non sia venuto in mente a questo voyeur defilato una vecchia canzone di Aznavour che avrebbe descritto perfettamente la scena:

Et moi dans mon coin
Si je ne dis rien
Je vois bien votre manège
Et moi dans mon coin
Je cache avec soin
Cette angoisse qui m’étreint

Ed è raffinatissimo il modo con cui Celine Song ci introduce nella storia dell’amore sospeso fra due ragazzini coreani diventati grandi, facendo però convergere con discrezione lo sguardo sullo sconforto appena celato di chi si sente escluso da questo idillio.

Ma procediamo con calma. Na Young e Hae Sung sono due compagni di classe in una scuola media di Seul all’alba del nuovo millennio. Na Young è brillante, decisa e, anche se un po’ piagnucolona, ha le idee chiare: è convinta che sposerà Hae Sung e ambisce al premio Nobel per la letteratura. Hae Sung è più introverso, servizievole, timido. Passeggiano assieme, giocano nel parco pubblico sotto gli occhi vigili delle madri, tengono teneramente le mani allacciate viaggiando in pullman. Poi le loro vite, come le strade che percorrono assieme tornando da scuola, si separano. Na Young seguendo i suoi genitori emigrerà in Canada, si adatterà al nuovo mondo, occidentalizzando il suo nome in Nora, realizzerà il suo sogno di diventare una scrittrice, si trasferirà a New York, mentre Hae Sung avrà un’esistenza più lineare e mediocre: studi di ingegneria, servizio militare, vita in famiglia, sempre i soliti amici, sempre le solite sbronze in compagnia. Dodici anni dopo, galeotti i social, Nora e Hae Sung si ritrovano nello spazio virtuale di skype per esplorare, separati dall’oceano e da vite divergenti, un mondo di ricordi. La curiosità, l’imbarazzo e poi, a poco a poco, una nuova complicità sabotata dai problemi di connessione e dalla artificialità di questa nuova condizione che, superata la prima fase di entusiasmo e allegro stupore, si impantana in una routine insignificante.  A questo punto le vite di Nora e Hae Sung prendono definitivamente percorsi diversi. La donna sembra svincolarsi del tutto dai ricordi, trova l’amore e la stabilità in un rapporto maturo con uno scrittore ebreo newyorkese, Hae Sung si trasferisce in Cina per lavoro e prova a stringere una relazione con una ragazza coreana. Fino al nuovo, commovente incontro a New York, dodici anni dopo.

Cosa nasconde questa strana storia d’amore interrotto, scandita dallo scorrere del tempo, contratto nelle elissi della narrazione, ma dilatato nel vissuto dei protagonisti? Quale è il mistero discreto dell’attrazione che i due giovani coreani continuano a provare a distanza di decenni e di migliaia di chilometri? Forse per rispondere a questo interrogativo dobbiamo però cambiare prospettiva e capire come  la romantica storia d’amore che ci racconta Celine Song sia anche il pretesto per riflettere su qualcos’altro: sul modo doloroso e precario, perché sempre esposto al rischio dello smottamento, con cui costruiamo la nostra identità personale, un percorso disseminato di sentieri interrotti e occasioni perdute  all’interno del quale, ad ogni passaggio che ci porta a consolidare sempre di più il nostro io, corrisponde un progressivo restringimento del campo delle nostre possibilità. Ogni scelta che compiamo nella nostra vita, ma, in modo ancora più deterministico, ogni situazione in cui siamo coinvolti e su cui spesso non abbiamo nessun controllo, come l’emigrazione per Nora, seleziona un settore in quello spazio indeterminato e virtuale di potenzialità su cui si spalancava la nostra infanzia. Certo, ogni nuova decisione dischiude anche nuove opportunità, ma via, via, sempre più specifiche e ristrette, incanalate ogni giorno di più lungo una direzione determinata che, inesorabilmente, è inutile nasconderlo, converge verso un binario morto. L’incantamento che lega Nora e Hae Sung non è tanto un semplice rimpianto per un passato di innocenza e affetto smarriti, quanto la nostalgia per un futuro anteriore che non si è realizzato, ma che “grigiorosea nube” avrebbe detto Montale, può, a volte, fare capolino fra le pieghe della nostra quotidianità per inquietare il nostro presente. E Celine Song ha il merito di raccontarci questa storia con grazia garbata, non priva di una nota di fondo di malinconia, rimanendo però sempre sulla soglia del pathos e caratterizzando i tre tempi dell’incontro dilazionato di Nora e Hae Sung senza sconfinare in sentimentalismi dolciastri, ma concentrandosi, con trattenuto pudore, sul tratteggio di stati d’animo sfumati: la tenerezza della adolescenza, l’impaccio un po’ goffo della relazione online, la composta tristezza dell’ultimo incontro. L’aiutano in questo compito tre grandi attori, che riescono a rendere la contrastata ambivalenza dei loro personaggi: la problematica risolutezza di Nora (Greta Lee), il romanticismo incerto e un po’ rigido di Hae Sung (Teo Yoo) e su tutti l’umanità silente e sofferta di Arthur (John Magaro). La fluidità della narrazione che alterna intensi primi piani con lente panoramiche degli spazi vissuti dai protagonisti, le città, New York e Seul, in un contrappunto di spettacolarità e disordine, ma che anche, indugia su particolari insignificanti, arredi di interni, il riflesso di palazzi su una pozzanghera, offre un senso di continuità placida, sottolineato dalla tessitura della colonna sonora di Christopher Bear e Daniel Rossen, mai invadente o inutilmente stucchevole, quanto fusa con le immagini in un fluire morbido che simula e restituisce lo scorrere del tempo, ma anche le sue intermittenze. Che sono pure le intermittenze del cuore, soprattutto quando la vita passata di Nora entra in conflitto con il suo presente, con l’arrivo di Hae Sung a New York che turba la rilassata vita di coppia fra la donna coreana e Arthur, il marito americano. Una relazione quella fra i due coniugi come tante altre, nata per caso in una residenza per giovani scrittori, cresciuta su interessi comuni, sfociata in un affetto solido, che non sembra però per Nora segnato – come appare in una delicatissima scena di un dialogo notturno fra i due sposi – da una travolgente passione.

Un’antica credenza coreana ritiene che esista una sorta di fato chiamato In-yun che determina gli incontri decisivi nella nostra vita sulla base di incroci e connessioni reiterate, vissute innumerevoli volte nelle nostre esistenze passate. Il legame che si stringe fra Nora e Hae Sung sembra essere proprio di questo tipo. Song, dopo averlo accennato sottotraccia per tutto il suo racconto, lo suggerisce esplicitamente nel modo in cui filma l’incontro fra i due giovani a New York, sfuocando la profondità di campo per far emergere le loro figure e i loro volti come stagliati su uno sfondo indefinito, come se il resto del mondo diventasse evanescente rispetto al loro rapporto. Ben poco sembrerebbe poter fare contro la potenza di questo karma Arthur, che, con amaro sarcasmo, dipinge il suo ruolo come quello dell’ingombrante incomodo che ostacola il compimento di un amore scritto nelle stelle. Eppure, quando Nora porterà Hae Sung al taxi che lo condurrà all’aeroporto, nella lunga, elegantissima carrellata che seguirà i due giovani verso il luogo dell’appuntamento (e riaccompagnerà poi a ritroso Nora, sola, nel suo ritorno a casa), le loro figure risulteranno perfettamente integrate nell’ambiente che si delineerà netto, emergendo nella profondità di campo al momento dell’addio in un raffinato cromatismo sui toni freddi del blu. In fin dei conti la stessa Nora, quando aveva raccontato per la prima volta ad Arthur la storia dello In-yun aveva ipotizzato – non senza demitizzante ironia – che in Corea lo si usasse solo come espediente di seduzione. Si può anche pensare che ci sia un destino nascosto che governa le nostre vite e predispone i nostri legami fatali, ma Song ci rammenta anche di come esse siano intessute di casualità, incontri fortuiti, circostanze impreviste, occasioni smarrite che hanno però dischiuso altre opportunità per cui, se anche siamo fatti di passato, dal passato dobbiamo, comunque, prendere congedo, rassegnandoci al fatto che questo abbandono possa consegnarci ad un languido, struggente senso di perdita. Così scriveva Henri Bergson: “Ognuno di noi, con un colpo d’occhio retrospettivo sulla propria storia, constaterà che la sua personalità da bambino per quanto indivisibile, riuniva in sé persone diverse, che potevano restare fuse insieme perché erano allo stato nascente: questa indecisione piena di promesse è uno dei fascini dell’infanzia. Ma le personalità che ci compenetrano divengono, col crescere, incompatibili e, poiché ciascuno di noi non vive che una sola volta, è costretto a fare una scelta. Noi scegliamo, in realtà incessantemente e incessantemente abbandoniamo molte cose. La strada che percorriamo nel tempo è coperta dalle rovine di tutto ciò che cominciavamo a essere, di tutto ciò che avremmo potuto diventare.

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