Perfect Days

Come ogni buon cinephile, Wenders dà per scontato che i suoi spettatori rimangano in sala fino a che, terminato lo scorrere dei titoli di coda, lo schermo non ritorni nero. Proprio qui inserisce le sue istruzioni per l’uso: “Komorebi è la parola giapponese per la luce e le ombre create dalle foglie che ondeggiano. Esiste una volta sola. In quel momento”. La fugacità è, per la sensibilità estetica nipponica, una qualità essenziale della bellezza. Mono no aware, letteralmente «lo struggimento delle cose», è quel sentimento, misto di meraviglia e profondo rispetto, che si impadronisce di noi nel momento in cui diventiamo consapevoli della caducità del mondo e della transitorietà di ogni cosa, affetto che si manifesta con maggior evidenza nelle esperienze più minute, apparentemente insignificanti: i giochi di luce ed ombra prodotti dallo stormire delle foglie al vento o l’appassire e il leggero librarsi nell’aria dei petali dei fiori di ciliegio…

Hirayama – il maturo protagonista del film, interpretato da uno straordinario Koji Yakusho – è, come nei film di Kaurismaki, un uomo apparentemente senza passato. Vive la sua esistenza come un continuo, ascetico esercizio spirituale, ma così interiorizzato che l’esecuzione ripetitiva dei suoi gesti – sempre uguali, sempre controllati – rivela una naturalezza ed una eleganza rare. C’è un termine, molto caro alla cultura giapponese e teorizzato da uno dei maggiori filosofi nipponici del ‘900 Kuki Shūzō, che può indicare sia l’allure di Hirayama nei suoi rituali, sia il modo distaccato, ma assieme sottilmente partecipe con cui Wenders lo filma: Iki, grazia. È straniante, ma nello stesso tempo ipnotico, il modo con cui la macchina da presa di Wenders segue l’uomo durante le sue giornate, senza paura di riprendere, in sequenze ripetute, gli stessi gesti identici, eludendo la monotonia attraverso un gioco di variazioni minime, prima impercettibili, poi via via più accentuate, ma tutte volte, come in una composizione musicale seriale, a sottolineare l’idea di un flusso sempre uguale che si percepisce attraverso le lievissime alterazioni. Hirayama è un operaio dell’azienda comunale, addetto alla pulizia delle toilette pubbliche nel quartiere Shubuya a Tokyo. Ecco sì, siamo in Giappone, non immaginiamoci “The Worst Toilet in Scotland” di Trainspotting, si tratta, per altro, di 17 vere e proprie opere d’arte, realizzate da artisti del design e spesso si ha l’impressione che Hirayama pulisca sul pulito, ma, anche se Wenders ricama la sua storia sul contrasto fra l’umile e negletto compito assegnato al suo protagonista e la delicatezza raffinata del personaggio, in fin dei conti non è neppure troppo importante questa scelta di sceneggiatura. Hirayama avrebbe potuto aggiustare biciclette, impegnarsi all’interno di uno studio universitario per risolvere la congettura di Riemman, o molare lenti in una cameretta linda come Spinoza all’Aia. Fondamentali sono la cura, quasi contemplativa, con cui si dedica al suo lavoro, la sollecitudine serena che accompagna i suoi riti abituali: consumare il suo sandwich nel parco di un tempio, fotografando con una vecchia Olympus, un solo scatto al giorno, le fronde degli alberi, fare la sua toletta in un bagno pubblico, frequentare la domenica una lavanderia a gettone, una biblioteca e, assieme ad altri avventori abituali, il locale di un’amica, leggere prima di addormentarsi Faulkner. C’è un concetto proprio del Buddismo Zen che sembra esprimere l’atteggiamento di Hirayama verso il mondo e le persone: “gentilezza amichevole”, che non vuol dire semplice e formale cortesia e nemmeno partecipazione emotiva nei confronti degli altri. È qualcosa di più tenue ed assieme profondo. Hirayama, silenzioso e misurato, sopporta stoicamente la petulanza e la cialtroneria del suo giovane collega di lavoro, aiutandolo però in modo disinteressato quando lo vede in difficoltà, conforta i bambini che si sono persi, ha sempre un sorriso garbato per gli estranei, intrattiene con uno sconosciuto (evidentemente abbastanza disperato da lasciare nascosto in una toilette un foglietto con una partita iniziata) un match di tris a distanza. Ma preserva anche i timidi germogli di acero, sorride al cielo, alle nuvole e alle piante. Il suo è un atteggiamento benevolo di accoglienza che, se vogliamo seguire la lezione dello Zen, nasce nel saggio grazie alla capacità di porre il vuoto in sé, di liberarsi da ogni attaccamento alle cose, comprendendo e quindi vivendo l’insostanzialità e l’impermanenza di ogni realtà, dato che nella vacuità ogni ente non sussiste di per se stesso, ma si dà solo in una inesausta rete di rapporti dove ciò che è non riposa mai in sé, ma trapassa in altro, in un costante fluttuare fra presenza ed assenza, ombra e luce. Un po’ come appare nei sogni di Hirayama dove forme vaghe si sovrappongono e si confondono per essere assorbite nello sfondo bianco da cui riemergono sempre diverse. Saltati i confini che delimitano il soggetto dal mondo esterno, l’io si dissolve, dischiudendosi “come luogo di ospitalità”, immersione in un presente di serenità, senza desideri e inquietudini, nello spalancarsi di una apertura illimitata, all’interno della quale “nulla” si impone, ma tutto permane, trasformandosi.

È un’immagine cristallina, forse un po’ algida, quella che Wenders costruisce nella prima parte del film, ma che poi, improvvisamente “sporca”, contamina. Inizialmente erano stati solo piccoli segnali, che sembravano vezzi d’autore. Hirayama ha dei gusti musicali che assomigliano molto a quelli del regista (e ai miei, se a qualcuno può interessare). Ascolta nei lunghi viaggi verso il suo luogo di lavoro le cassette dei Velvet Underground, Patti Smith, Van Morrison e altri hit degli anni ’60/70, ha nella sua ricca biblioteca Patricia Highsmith (autrice, non a caso, de L’amico americano…) ed in generale si circonda di oggetti obsoleti (audiocassette, appunto, una macchina fotografica analogica, scatole di latta piene di foto in bianco e nero, un orologio meccanico, il vecchio van) quasi che Wenders volesse indicare una forma di gentile, ma assieme tenace resilienza di Hirayama nei confronti di una modernità volgare e incombente. Resilienza che appare anche nel modo, intimista e levigato con cui Wenders e il suo direttore della fotografia Franz Lusting filmano quella che dovrebbe essere una megalopoli frenetica come Tokyo, indugiando invece sulle oasi di tranquillità dei parchi e dei templi e catturando nell’obiettivo soprattutto situazioni indefinite di luce: la penombra della notte che si confonde in mattino e il tripudio di albe e tramonti.

Ma la vera infrazione si dà con l’arrivo inaspettato di Niko, la nipote di Hirayama, una jeune fille en fleur (Brown Eyed Girl avrebbe detto Van Morrison…) scappata di casa, un ambiente che si intuisce privilegiato e formale e, a giudicare dal racconto La tartaruga di Patricia Highsmit che appassionerà la ragazza, in fuga anche da un rapporto non certo idilliaco con la madre, la sorella di Hirayama. L’ingresso nella narrazione di Niko costituisce una frattura: prorompe come l’accadere di un evento, determinando l’irruzione del tempo e infrangendo così la continuità acronica dei rituali di Hirayama. Fra l’uomo e la ragazza si stringe fin da subito un’intimità complice, ma assieme a questa sono anche i ricordi del passato che assalgono l’uomo e nello stesso tempo lo sconcerta la prospettiva dolorosa di un futuro vuoto di solitudine che, per la prima volta, Hirayama sembrerà avvertire, quando la madre verrà a riprendere la ragazza. Può sorgere il dubbio che il mondo di sobrie abitudini su cui s’era costruita l’esistenza dell’uomo non fosse altro che una barriera protettiva che Hirayama aveva innalzato contro il mondo esterno, a difesa di un io ferito e sconfitto. Se così veramente fosse, tutto l’incanto della prima parte del film non risulterebbe altro che una pietosa finzione, un’inutile fuga di Hirayama da sé stesso, dai suoi rimpianti e forse dai suoi rimorsi.

Per fortuna Wenders non offre chiavi univoche di lettura del suo apologo, lascia il racconto sospeso e l’unico ambiguo indizio che ci offre è la lunghissima, formidabile inquadratura finale sul volto del suo protagonista che, con una performance che lascia strabiliati di Koji Yakusho,  oscilla fra la tristezza e la felicità, mentre andando al lavoro, come ogni giorno all’alba, ascolta Feeling Good di Nina Simone: “You know how I feel; it’s a new day; it’s a new life; for me; and I’’m feeling good”.

Visto così che nulla è garantito, vale quello che vale, è il vostro umile recensore ad azzardare un’interpretazione. Magari non è del tutto Zen, ma forse quello che  Wenders vuole dirci è che vivere il presente nel suo fulgore: “Adesso è adesso”, apprezzare la grazia e la gioia delle piccole cose è possibile solo se non si cancella il nostro passato, ma lo si assume, anche nella sofferenza, come ciò che ci abita. Vivere il presente come un’epifania continua è forse possibile solo dopo aver attraversato il lutto di una perdita, esperienza dolorosa, ma che, in prospettiva, ci permette anche di assaporare, nella consapevolezza della provvisorietà di ogni cosa, come ciascun istante possa essere unico, irripetibile, prezioso. Pure se questo sentimento di pienezza non può essere disgiunto da una impalpabile nostalgia, quella che si avverte davanti alla precarietà e al tramonto di ogni esistenza. Ancora una volta «lo struggimento delle cose». L’indefinito ed inafferrabile passaggio dall’ombra alla luce e dalla luce all’ombra delle foglie mosse dal vento, che nel momento in cui si dà è già finito. È, in fondo, qualcosa di molto semplice, molto banale, che già sapevamo. Nei nostri giorni perfetti: “Sometimes I feel so happy; Sometimes I feel so sad

Questo articolo ha 2 commenti.

  1. Annalisa Bruni

    Grazie, Ferdinando. Come sempre la tua analisi è profonda, precisa e sensibile, arricchita da citazioni mai gratuite. Aggiungerei una certa vicinanza, pur con le debite differenze, con il film Paterson di Jim Jarmusch. Anch’io ho trovato l’ultima sequenza di forte impatto emotivo, anche per la straordinaria bravura del protagonista. Ho gusto il film due volte, a pochi giorni di distanza e ogni volta sono uscita dal cinema invasa da emozioni fortissime e infinite riflessioni.

  2. Ferdinand 1912

    Sì è vero, il cinema di Jarmusch e quello di Wenders hanno molte cose in comune e Paterson è uno dei film migliori del regista americano, solo che Adam Driver – per quanto forse anche lui in una delle sue migliori interpretazioni dai tempi di Frances Ha – non si avvicina neppure all’intensità (e alla sensibilità) di Koji Yakusho. Sulla scorta delle ultime, imbarazzanti, prove di Wenders (dopo la delusione di Ritorno alla vita, con sempre il frusto tema della crisi dello scrittore davanti alla pagina bianca avevo visto a Venezia, qualche anno fa, questo film di un marito e moglie che chiacchierano vacuamente in un giardino di cui per fortuna mi sono dimenticato quasi tutto) ero andato con pochissime aspettative. E invece non mi commuovevo così dai tempi di Alice nella città (e anche qualcosa di questo film c’è in Perfect Days). E allora, grazie. Adesso sai dove trovarmi. baci

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