“I shut my eyes and all the world drops dead; I lift my lids and all is born again.”
Che cosa è il mondo al di fuori della mia mente? Martha è una neurochirurga giovane e determinata. Dall’Ungheria è arrivata in America, scalando le vette della professione è diventata un medico di prestigio in una delle più affermate cliniche statunitensi, ma, dopo aver trovato ad un convegno Jànos, un connazionale fascinoso, decide di lasciare tutto, di tornare a Budapest dove romanticamente i due si danno convegno sul Ponte della Libertà. Tutto questo lo sappiamo solo da Martha, fonte forse inattendibile, perché quello che vediamo sullo schermo è solo il suo ritorno, l’attesa inutile, la ricerca affannosa dell’uomo. Solo che lui, una volta raggiunto trasecola: non l’ha mai vista prima. Martha crolla, ma poi, con una testardaggine tanto caparbia quanto insana decide di rimanere a Budapest. Accetta di lavorare nell’ospedale del suo vecchio professore, assediata dall’invidia e dal risentimento di colleghi meno preparati. Spia Jànos, ma non l’assilla. Si richiude in un castello di attesa, non sa bene lei di cosa e mentre simula una storia di seduzione con un giovane studente, figlio di un suo paziente, si prepara per qualcosa che non può accadere.
“I dreamed that you bewitched me into bed and sung me moon-struck kissed me quite insane”
Storia di una fredda follia quella di Martha o di un autoinganno ragionevole, se non proprio pietoso, come suggerisce il suo analista, per cui forse Martha finge un delirio per nascondersi l’amara verità che l’amore della sua vita è un volgare imbroglione? Il film vive nell’oscillazione calibrata fra sogno e realtà, allucinazione e oggettività che l’elegante regia attenta di Lilì Horvat riesce a protrarre in modo asciutto, sfuggendo ai manierismi hitchcockiani che si sarebbero potuti prevedere, ma la narrazione si smarrirebbe in un’esercitazione stilistica se non fosse animata dalla risolutezza incerta con cui Martha affronta questa prova. Nataša Stork rende credibile l’indecisione della trama perché è bravissima nel tratteggiare gli sfumati passaggi fra la determinazione e lo smarrimento, la curiosità professionale per le sue stesse condizioni e la mania che la domina. E lo spettatore condivide così lo sguardo di Martha che assieme ha la lucidità di vedersi dall’esterno e nello stesso tempo la fissazione visionaria che sprofonda nella sua ossessione, per cui, ad un certo momento, risulta indifferente sapere se ciò che accade nello schermo, una passeggiata per le vie di Budapest, lei e lui quasi rispecchiati in silenzio ai lati opposti della strada, una scena d’amore disperato in un appartamento vuoto nell’illuminazione sgranata e onirica dei 16mm, siano eventi reali o avvengono solo nella mente di Martha. In fin dei conti anche il realismo documentaristico delle sale d’attesa gremite di pazienti nell’ospedale fatiscente dove lavora Martha a Budapest o i primi piani esasperati delle sedute dall’analista, lo sfondo turchese su cui si staglia il pallore di Martha, il pervinca dei suoi occhi, il rosso cupo del suo rossetto, pur nella opposta concretezza del loro impatto visivo, possono ugualmente alludere ad un indeterminato universo di finzione. Non è questo il cinema? Poi la Horvat sceneggiatrice risulta meno azzardata della Horvat regista proponendo, caritatevole, una delle possibili vie d’uscita, ma questo non inficia l’atmosfera di sospensione che comunque pervade la pellicola, annunciata nei versi di Silvia Plath, richiamati sullo schermo nero all’inizio del film: “I shut my eyes and all the world drops dead (I think I made you up inside my head)”.
Perché, forse, la Horvart vuole solo dirci qualcosa di molto semplice. Qualcosa che già, implicitamente, sappiamo ed abbiamo sperimentato molte volte. Che cosa è l’amore se non una sindrome patologica che sovverte l’omeostasi della nostra psiche, un’alterazione della percezione delle cose, una costante invenzione dell’altro?
“I should have loved a thunderbird instead. At least when spring comes they roar back again. I shut my eyes and all the world drops dead (I think I made you up inside my head)”.
