Una evidente impressione di deja vu coglie lo spettatore fin dai titoli di testa. Ci ritorneremo.
Un salotto raffinato, luci giallastre ovattate, comodi divani e confortevoli poltrone. Una piacevole serata in un ambiente intellettuale e ricercato di docenti e studenti di filosofia a Yale, dove si chiacchiera con una certa superficialità sulla relatività dei principi etici (Aristotele era xenofobo, Freud misogino e via di questo passo). A parte le comparse, un chiasmo a quattro: Hank (Andrew Garfield) , un professore quarantenne, look alternativo forse un po’ troppo pauperistico visto l’ambiente, sarcastico e provocatore, si prende bonariamente gioco, elogiandola, di Maggie (Ayo Edebiri) una studentessa di colore, lei, brillante e per nulla intimidita, gli risponde caustica; incrociata rispetto a questa prima, una seconda coppia, marito e moglie, Fredrick (Michael Sthulbarg) silenzioso e sornione, appena qualche battuta a commento di altri discorsi, Alma (Julia Roberts), anche lei docente, amabile e sofisticata, assiste divertita, arbitro della disputa, anche perché quella che sembra essere una schermaglia a due è invece finalizzata, si può intuire allora, si capirà sempre di più nel corso del film, ad ottenere l’attenzione e il favore della donna. Hank e Alma oltre che colleghi sono cari amici e forse qualcosa di più, ma sono anche rivali per l’assegnazione di una cattedra prestigiosa. Alma e Maggie sono docente tutor e dottoranda, e forse qualcosa di più, Alma tiene la ragazza in palmo di mano, la sua studentessa più profonda e acuta, Maggie usa le stesse giacche oversize e lo stesso smalto nero della professoressa. Il marito è defilato, apparentemente indifferente alla disputa fra i due, ma assieme dissimula a stento una latente insofferenza per la situazione. Guadagnino dispone le carte sul tavolo con precisa eleganza, attento ai dettagli della postura dei corpi – stravaccato e strafottente il professore, rigida la ragazza, placido il marito, sovrana e rilassata Alma – come allo scambio incrociato delle inquadrature, al riverbero delle luci, all’ingresso fuori tempo e impacciato nel gioco a quattro dei comprimari, alle suggestioni anticipatrici della musica diegetica (Underground di David Bowie), perfino alla rilevanza del brusio di sottofondo. Molto più del fastidioso ticchettio di una sveglia sovradimensionata che incombe nelle prime scene del film, dedicate a ritrarre momenti sparsi di una giornata di Alma, è l’atmosfera falsamente conviviale, ma, al di là delle apparenze, carica di ostilità di quel buon salotto borghese, che avvia l’innesco di un meccanismo ad orologeria. Che puntualmente porta alla deflagrazione. Poco dopo Maggie arriva alla porta di Alma per denunciare sconvolta la violenza di Hank.
Si sbaglierebbe a schiacciare il film di Guadagnino sull’ennesima variazione intorno al tema #me-too, ma forse anche ad attribuirgli la profondità tragica di un’indagine sulla natura e lo statuto della verità come era stato per Les Choses humaine di Yvan Attal. Neppure la questione della irrimandabile scelta etica che sembra paralizzare Alma, sospesa sull’ aut-aut se prendere apertamente le parti di Maggie, nei confronti di cui si mostra comunque fredda, se non proprio diffidente, o rimanere fedele al proprio amico, concedendogli il beneficio del dubbio, non sembra essere il vero centro dell’interesse di Guadagnino.
In una sequenza costruita con consumata maestria, Alma affronta Hank, chiedendogli ragione del suo comportamento e il professore, pur riconoscendo e maledicendo la leggerezza compiuta nell’aver accettato di salire a bere l’ultimo bicchiere nell’appartamento della giovane, rovescia le accuse. Maggie agisce per calcolo e vendetta, coperta dalla ricchezza della sua famiglia, generosa finanziatrice dell’università, vuole solo screditarlo perché il docente ha scoperto che la sua tesi di dottorato è un volgare plagio. Il confronto si svolge in un ristorante, Guadagnino alterna campo contro campo a movimenti di macchina ad avvolgere i personaggi i cui volti sono moltiplicati dal riflesso degli specchi che contornano la sala e quasi li spiano da diverse angolature. Un gioco di specchi come quello che regia e sceneggiatura stanno architettando, non solo per articolare la narrazione incrociando le prospettive contraddittorie dei personaggi, ma anche sottolineando la doppiezza reticente di ciascuno, un gioco che, come già indicava la prima sequenza del dialogo a quattro la sera prima delle presunte molestie, se coinvolge direttamente Hank e Maggie, ha come obiettivo deviato Alma. In una sequenza apparentemente di contorno e ambientazione, la camera da presa aveva ritratto Alma mentre spiegava ai suoi studenti la funzione del Panopticon nella filosofia di Foucault. Prigione ideale ideata da Jeremy Bentham, il Panipticon suggerisce il modello di una società completamente trasparente, dove non c’è più bisogno di un potere repressivo perché il controllo è interiorizzato: ciascuno si sente osservato e soprattutto giudicato dagli altri e quindi vincolato implicitamente ad autocensurare preventivamente ogni comportamento deviante rispetto al sentire comune, uniformandosi al conformismo generale. Alla Mostra del Cinema di Venezia qualcuno ha visto in questo inserto una possibile chiave della lettura critica del disciplinamento sociale prodotto dalla cultura woke (Hank sulla base del semplice sospetto, prima dell’arrivo di qualsiasi conclusione giudiziaria, è licenziato in tronco dall’università). Ma si tratta di una conclusione affrettata, probabilmente una delle tracce depistanti che la sceneggiatura dissemina qua e là nello svolgimento del racconto. In effetti, nel mondo ristretto e chiuso ritratto da Guadagnino, non c’è nessuna trasparenza. Tutti i personaggi celano segreti, dissimulano aspetti per lo più sgradevoli della loro personalità a partire da Meggie, la vittima, di cui emerge un po’ alla volta la natura infida e manipolatrice, Hank, del resto, anche se rivendica inascoltato la sua innocenza, dimostrerà d’avere atteggiamenti sessualmente aggressivi, che sembrano avvalorare a posteriori le accuse e lo stesso Frederick nasconde dietro la sua ironia noncurante e la sufficienza con cui accoglie gli amici di Alma una profonda frustrazione per la insensibilità della donna nei suoi confronti. Su tutti Alma, il fulcro d’attrazione attorno a cui ruotano le manovre dei diversi protagonisti per conquistarne l’approvazione, l’amicizia, l’amore, oggetto del desiderio da influenzare attraverso strategie insinuanti di seduzione, ma nello stesso tempo soggetto di condizionamento consapevole dei suoi interlocutori, è rosa da segreti che la stanno consumando. Qui la sceneggiatura, quasi presa nelle macchinazioni dei suoi protagonisti eccede in reticenze. Qual è la natura misteriosa della malattia di Alma? Perché non va, come tutti i cristiani, da un medico, ma si impasticca fino a diventare dipendente. Il marito, che diligente ogni giorno somministra due non meglio identificate pillole alla donna, è connivente o all’oscuro di tutto? Julia Roberts offre una grande interpretazione anche perché non è semplice rendere la complessità di una donna intelligente ed affascinante, stimata e adulata, ma che assieme risulta antiempatica, costruita, trattenuta, incapace di lasciarsi veramente andare, al di là dell’affabilità di facciata, a una qualsiasi forma di partecipazione emotiva nei confronti degli altri che non siano, in alcuni casi, reazioni stizzite e eccessive nei confronti dei suoi sventurati alunni. Regia e sceneggiatura si ingegnano in tutti modi per renderci spiacevoli i personaggi e per svelarne, in un susseguirsi di colpi di scena – per lo più, però, piuttosto forzati, forse uno dei maggiori punti deboli del film – la natura meschina. Gli austeri corridoi dell’università, le biblioteche silenziose, gli interni chic delle case borghesi sono lo sfondo in cui si tesse una trama di rapporti di dominazione e subordinazione spesso rovesciati, che si negozia, afferma ed esercita al di sotto e attraverso il vacuo chiacchiericcio intellettuale. Probabilmente è questo l’aspetto che interessa maggiormente a Guadagnino e forse qui Foucault c’entra sul serio: mettere in luce come il potere non sia tanto una forza che opprime, ma un sistema di relazioni ambivalenti che si insedia nei nostri rapporti interpersonali e assieme un fluido che circola all’interno della società, plasma i soggetti, definisce comportamenti, stabilisce la sfera di ciò che può essere considerato vero o falso. In questo senso la digressione sul woke è solo una esemplificazione di come anche la condizione di vittima, inserita all’interno di una strategia di autoaffermazione e controllo dell’altro, può rovesciarsi in un punto di forza. Solo all’interno di questo scontro fra volontà di potenza si comprende anche il senso piuttosto criptico del titolo del film di Guadagnino “Dopo la caccia” che – lo dicono le note di produzione, mica ci arriva uno da solo – rinvia ad un celebre aforisma di Otto von Bismark “Non si mente mai così tanto come prima delle elezioni, durante la guerra e dopo la caccia”. Credo che Guadagnino debba aver pensato, con una buona dose di snobbismo, che titolare il film “Durante la guerra”, avrebbe dato una indicazione di lettura troppo rivelatrice e condiscendente nei confronti del povero spettatore. Perché di guerra, cerebrale e astratta, ma per questo non meno crudele, si tratta, guerra anche fra generazioni, con la generazione X, paternalista e disponibile, ma in realtà arroccata in difesa delle proprie posizioni dall’assalto di una generazione Z radicale ed intollerante. È questo l’unico campo in cui la sceneggiatura scopre in maniera più evidente le carte. Già un giudizio buttato lì dalla psicologa dell’università aveva aperto la strada, quando la nuova generazione era stata definita come “fiocchi di neve che si crogiolano nelle loro sofferenze”, ma se possibile sono le parole sferzanti di Alma nel confronto serrato con Maggie a chiudere la questione. “Non tutto il mondo è fatto perché tu ti senta a tuo agio come in un bagno caldo” parole a cui la ragazza non sa come reagire se non con uno schiaffo – unico momento di violenza esplicita nel film – che è una dichiarazione palese di impotenza; parole che mostrano, con una assenza di cautela che è rara nel film, la presa di posizione esplicita di regia e sceneggiatura.
In questa rete di conflitti sordi, la risoluzione finale giunge inaspettata e sembra portare una ventata d’aria fresca in una atmosfera ammorbata. Alma in ospedale, sconfitta e umiliata, travolta dal castello di bugie con cui cercava di puntellare la sua rispettabilità e la sua scalata alla posizione di potere e prestigio nell’università, trova il conforto del marito, che, in questo ginepraio di menzogne, simulazioni e dissimulazioni che si è succeduto per le due ore di film precedente con la chiara finalità di disturbare fino all’irritazione lo spettatore, fa il primo discorso aperto, privo di doppi fini, realmente compassionevole e carico d’amore. Sarebbe stato un bel finale, il primo colpo di scena non artificioso, ma Guadagnino cede alla tentazione di rinforzare in un contro-finale il gusto acido che pervade il film.
Lo stacco in nero ci mostra i protagonisti cinque anni dopo. Superata la crisi, Alma, presumibilmente conciliata con i suoi demoni, ha ricostruito il rapporto con Fredrick, è diventata preside di facoltà e ha mutato di conseguenza look: lasciate le stilose giacche oversize indossa un morbido dolce vita azzurro e con i capelli raccolti, complice anche la neve che imbianca Yale, sembra trasmettere la stessa dolcezza struggente di Lara Zivago a Varykino. Anche Maggie, che la professoressa incontra in un caffè, è completamente cambiata e porta un vestito dagli sgargianti colori etnici in un contrasto stridente, ricercato dalla regia, con la sua vecchia professoressa. Ha abbandonato il suo fidanzato non binario del tempo, che esibiva come un ornamento della sua postura woke, ed ha trovato l’amore con una donna splendida e matura, probabilmente abbandonando anche lo sfizio di diventare filosofa. Hank non c’è, ma tra una battuta e l’altra si viene a sapere che il licenziamento ha fatto la sua fortuna, visto che è diventato lo spin doctor milionario di politici democratici. Tutti sono riappacificati e apparentemente felici e contenti, ma nel breve colloquio Maggie non perdere l’occasione di rinfacciare l’opportunismo e l’ipocrisia della sua antica mentore che incassa le accuse con olimpico distacco, mentre l’ultima inquadratura è riservata al volto di Andrew Jackson che campeggia su una banconota da 20 $. Un’inquadratura strana, che dura qualche frazione di secondo più del dovuto e che deve avere perciò un qualche significato. E in effetti Jackson settimo presidente degli Stati Uniti, strenuo difensore della democrazia contro le oligarchie tradizionali e promotore dell’allargamento del diritto di voto e dell’introduzione del voto segreto, fu, per inciso, anche schiavista convinto e promotore della confisca forzata e violenta delle terre dei Cherokee, quasi a ricordare, ora con ben altra consapevolezza, quella storicizzazione dei principi etici che era stata accennata all’inizio del film e gli abbondanti scheletri nell’armadio presenti, non solo nel privato dei protagonisti, ma anche nella storia americana.
Ora, visto che siamo tornati all’inizio, torniamo anche, per finire, a quell’impressione di deja vu. Lo hanno notato tutti: i font dei titoli di testa, la scelta di presentare gli attori in rigoroso ordine alfabetico e poi l’ambientazione cultural-chic, lo stesso cicaleccio intellettual-frivolo della prima scena, perfino la scelta delle luci portano dalle parti di Woody Allen, anzi, il richiamo al tema della scelta etica e la rilevanza della filosofia indicherebbe un omaggio al capolavoro alleniano: Crimini e Misfatti. Solo che la relazione con Allen è piuttosto infelice per il pur bel film di Guadagnino. Il regista italiano compie un lavoro raffinatissimo, al limite del manierismo, gli attori sono bravissimi, strenuamente impegnati nel compito di mettere a disagio lo spettatore ponendo in luce gli aspetti più antipatici dei loro personaggi, il film è densissimo e, nonostante la prolissità di alcuni sviluppi e la macchinosità di certi snodi, mantiene sempre alta la tensione, ma qualcosa sfugge. Allen ci racconta le crisi, le contraddizioni, i dilemmi di personaggi chiusi nel microcosmo della buona società newyorkese che però, in virtù della profondità spietata dello sguardo del regista americano e dell’empatia che riesce a trasmettere anche a partire dai caratteri più respingenti, assumono una valenza universale, ci parlano direttamente delle nostre crisi e delle nostre lacerazioni. Questo non si può dire che accada per il film di Guadagnino, per cui dopo due ore di intrighi, maschere sociali, veleni e inganni, ci viene da chiederci se sono veramente interessanti questi personaggi e questi giochi di potere all’ombra della venerabile istituzione universitaria americana. O non restino confinati nello spazio sofisticato e asfittico di quel mondo.