Saltburn

C’è una cosa che intriga nel film di Emerald Fennell, fin dal primo piano sequenza fra le strade affollate di ragazzi in una Oxford solare e caotica, ed è questa strana sensazione di distorsione temporale. Un grande cartello indica l’inizio delle lezioni dell’anno 2006, ma gli interni austeri, ripresi spesso accentuando la profondità di campo con il controluce delle alte finestre luminose al fondo delle stanze buie, i dialoghi fra gli studenti e i tutor o fra i ragazzi nelle cene nei college richiamano l’immagine di film o racconti situati nel crinale fra gli anni ’60 e ’70, dalle parti della rivoluzione vagheggiata in un sogno acido di If di Lindasy Anderson. Allo stesso modo, quando la vicenda si sposta in una superba dimora nella campagna inglese, le lancette dell’orologio sembrano correre ancora più a ritroso e il fulgore dei grandi spazi aperti delle distese di grano o dei giardini all’italiana ripresi in campi infiniti, la sontuosità dei vasti saloni attraversati dai piani sequenza, la cortesia altezzosa dei residenti richiamano l’Inghilterra aristocratica degli anni ’30 che si annoia sull’orlo della catastrofe. E invece siamo ancora in un tempo diverso. Siamo prossimi ai misteri di Compton House: il plebeo Mr. Neville è tornato ad ingaggiare un nuovo match di lotta di classe contro l’aristocrazia splendida e degenerata, ma ha deposto ogni alterigia insolente, si è fatto più subdolo, infido, letale. E da artista è diventato un borghese piccolo, piccolo.

Ma procediamo con calma. Oliver Quick (Barry Keoghan) è un giovane imbranato, bruttino, secchione che è riuscito ad accedere ad un college prestigioso di Oxford grazie ad una borsa di studio, ma deve scontare l’indifferenza se non proprio il dileggio dei suoi compagni, ricchi e arroganti. In modo, in vero piuttosto improbabile, riesce però a legarsi alla star indiscussa del college, Felix (nome omen) rampollo di una ricchissima famiglia nobiliare, i Catton, adorato e ricercato da tutti, che dovrebbe essere bello come un Dio greco, ma per un ghiribizzo del casting ha invece l’avvenenza ordinaria da ragazzone di baywatch di Jacob Elrodi. Piagnucolando su tristi drammi familiari – padre morto di overdose, madre tossica – Oliver scrocca una vacanza nella regale magione di famiglia di Felix a Saltburn e qui, prima timido e dimesso, poi sempre più ambiguo e insidioso, Oliver si insinua negli interstizi della famiglia di Felix come un parassita silenzioso e invasivo. Seduce la sorella fragile e disturbata di Felix, manipola la madre, asseconda servile il padre per portarlo dalla sua parte, mina la fiducia della famiglia nel cugino di Felix, Farleigh, rivale pericoloso nel ruolo di protetto dei Catton, struggendosi di desiderio e di astio per uno scostante, annoiato e decisamente sempliciotto Felix (forse qui il motivo della scelta di Elrodi per la parte?). Anche se la trama che sta tessendo Oliver e ben più intricata e paziente e la sua passione febbrile per Felix è solo una mossa di una strategia più ampia e fatale.

Cercando di ritagliarsi uno spazio originale fra l’algida dialettica hegeliana del Servo di Losey e gli inganni raffinati del Talento di Ripley di Patricia Highsmith (e Anthony Minghella), Fennel, può contare su alcune interpretazioni di alto livello:  quella di Barry Keoghan, ad esempio, che sa passare all’interno di una stessa inquadratura dalla piaggeria lamentosa alla fredda determinazione, anche se, pure nei momenti di abbandono, appare sempre piuttosto manierato, rimanendo lontano dalla travolgente umanità dimostrata in The Banshees of Inisherin, e quindi meglio di lui  Rosamund Pike, perfetta nel ruolo della premurosa e snob, sprezzante e vuota, ma soprattutto debole e meschina madre di Felix. Anche se la sceneggiatura è costantemente intenta ad ordire intrighi e  tranelli, costruiti attorno all’intreccio fra dissimulazione (della passione morbosa) e simulazione (dell’affettuosa amicizia), il film vive nelle atmosfere che evoca, fra il lugubre e il lascivo, oscillando fra suggestioni gotiche e una estetica pop con evidenti sbandamenti verso il camp, atmosfere attraversate dal richiamo insistente a metafore vampiresche – la suzione di liquidi organici, sangue mestruale o sperma, come forma di incorporazione e dominio, o biologiche, dove il parassita si ciba della carne dell’ospite dall’interno, uccidendolo lentamente. Solo che incamminandosi per questa strada la regia sembra perdere di vista l’attenzione ai nessi causali, alle sfumature per la gradualità dei passaggi fra uno stato emotivo e l’altro. L’eccessiva ricerca dell’effetto, il manierismo compiaciuto e un po’ fine a se stesso nella costruzione dell’immagine comportano un certo disinteresse per la coerenza della sceneggiatura che in diversi punti traballa con passaggi poco giustificati o inverosimili (assassini di tutto il mondo in cerca di impunità, la vostra Mecca è Saltburn). Mano a mano che la narrazione procede, Fennel abbandona l’intento, forse perché fino allora non sempre compiutamente realizzato, di spiazzare o turbare il suo spettatore, generando inquietudine, e punta decisamente a rilanciare la posta, mirando a stupirlo e irritarlo (?) con il facile ricorso all’espediente, molto bourgeois, di épater le bourgeois. C’è quasi un affanno sempre più evidente nella ricerca di caricare i toni per accentuare il crescendo drammatico della narrazione che rischia però di ridurre a caricature i personaggi, alcuni già molto stereotipati in partenza, come la sorella e il padre di Felix, mentre le scene si popolano sempre più di simbolismi, tanto grevi, quanto banali (corna diaboliche, ali d’angelo, minotauri e satiri). E a questo punto il confine fra il grottesco e il ridicolo diventa veramente impercettibile.

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