Tar

C’è una cosa che porta a diffidare: se si fa un film su un direttore d’orchestra, qui non importa che sia maschio o femmina, e poi lo si filma dirigere con movenze da tarantolato o i gesti di un mimo che sta scaricando un tir di mobili, o non si è un grande frequentatore di sale da concerto o si ha il sospetto che non lo siano i propri spettatori, sulle cui capacità di comprensione non si nutre neppure una grande fiducia, e quindi si ritiene necessario un rinforzo del messaggio per fare passare il concetto.

Il plot rovescia con metodo uno stereotipo consolidato. Una direttrice d’avanguardia, lesbica e arrogante (le due caratteristiche non sono necessariamente associate), ma anche musicologa, antropologa, scrittrice, donna di spettacolo, provocatoria e affascinante come una rock star e con molte altre virtù, si comporta sul palcoscenico e nelle remote stanze dove si decidono gli equilibri dell’universo della musica colta, con lo stesso cinismo e  la stessa spregiudicatezza e capacità  di manipolazione con cui potrebbe muoversi un consumato uomo di potere, alla faccia delle differenze di sensibilità e approccio che la supposta specificità di genere dovrebbe garantire. Solo che sarà  proprio un eccesso di hybris, fondata sull’incrollabile consapevolezza del proprio genio, che avrebbe dovuto garantirle una inattaccabile impunità, a perderla. Che Lydia Tar sia indisponente e orgogliosamente sprezzante nei confronti del comune sentire del politically correct,  Tod Field lo mette in chiaro fin dall’inizio in una scena molto ben girata, ma, anche qui, dal contenuto semantico un po’ ridondante. Nel mezzo di un seminario musicale condotto dalla direttrice, un bel ragazzo di colore, che preventivamente si autodefinisce, tanto per non lasciare dubbi, Bipoc (black, indigenous and people of color – per chi non avesse dimestichezza con gli acronimi) pangender, afferma di non apprezzare Bach come musicista a causa della sua ampia discendenza (Bach ebbe 20 figli), qualificandosi subito come un cretino e dando il destro a Lidia di fulminarlo con una battuta volutamente urticante sul noioso conformismo delle piccole differenze narcisistiche.

Il limite del film è un po’ tutto qui: i suoi pregi sono sempre in bilico su di un crinale ed esposti a trasformarsi in difetti. Interessante la caratterizzazione provocatoria di Tar in questa scena, buona la costruzione delle dinamiche di iterazione fra il giovane e la direttrice, apprezzabili i tagli delle inquadrature e gli slittamenti di campo, ma c’era davvero il bisogno di caratterizzare il ragazzo come un ottuso babbeo per paura di non fare passare il messaggio? Ed è quello che accade un po’ lungo tutto il film, costruito con una cura formale rigorosa, sofisticato nella sua fotografia nitida e raffinata, sontuosa nell’immagine, ma assieme sobria fino alla stilizzazione, come l’eleganza asciutta e impeccabile degli ampi abiti di taglio maschile di Lydia Tar, eppure rincarato e verboso nella caratterizzazione del personaggio. Qui anche la straordinaria performance di Cate Blanchett può apparire così forzata da essere controproducente quando la regia  spinge l’attrice ad accentuare i toni, scivolando, come nel caso in cui bullizza una bambina un po’ prepotente,  verso la caricatura, mentre Blanchett risulta più convincente nel momento in cui si mostra subdola e insensibile nei confronti del desiderio tormentato e silenzioso della sua assistente (una sempre brava Noémie Merlant) o pateticamente più sperduta ed ingenua nel tentativo di seduzione di una giovane orchestrale (Sophie Kauer), piuttosto indifferente al suo androgino charme. Né contribuisce troppo a sfumare i toni l’atmosfera, a volte, sospesa ed inquieta che Field cerca di suggerire, evocando misteriose presenze e tracce enigmatiche, che rimangono però dei sentieri interrotti, un modo un po’ facile per insinuare il sospetto di un ossessione paranoica che si impossessa di Tar. E così l’indubbio fascino e la sensualità ambigua che emana il personaggio di Lydia rischiano di diluirsi in una narrazione prolissa, non sempre sostenuta da misura e ritmo. Non un ottimo viatico per un film che ha nel suo cuore la musica.

 

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