Era una notte buia e tempestosa. In effetti la tempesta era solo annunciata e la stanza inquadrata nella prima sequenza all’albeggiare, più che inghiottita dalle tenebre, era immersa in una penombra soffusa. Un uomo e una donna a letto si distinguono appena in una situazione che il nostro immaginario cinematografico situa nello spazio indeterminato fra la fine dell’amore e la fine di un amore. Alex e Ale stanno infatti decidendo di lasciarsi. Il film di Trueba è, qui il legame con il famoso incipit infinitamente reiterato di Snoopy, un film sulla ripetizione. In primo luogo dell’annuncio della decisione bizzarra dei due amanti che si stanno lasciando. Seguendo quello che è il motto risaputo dei proprietari di barche (“Il secondo giorno più bello della vita è quando si compra una barca, il più bello è quando ci si disfa di quella barca”) Alex e Ale decidono di organizzare una festa per celebrare la loro separazione. Non sappiamo, ne sapremo nulla, del motivo che li porta a concludere la loro relazione di quasi 15 anni che era vista da tutti i conoscenti come un modello di solidità e rassicurante affetto. Il perché rimane nascosto nella notte fuori campo, ma tutto sembra continuare per loro come prima, anche se, fin dalle prime scene, split screen e decisi cambiamenti d’asse nelle riprese stanno ad indicare, anche visivamente, l’insinuarsi della divisione. Nulla cambia nella routine complice di ogni giorno, salvo il far capolino dell’unica variazione – riproposta – della notizia, ripetuta ad amici, colleghi e parenti, della fine del loro amore, sempre con la stessa formula: “Ci lasciamo, ma nessun problema, va tutto bene”. Comunicazione che sembrerebbe dover essere controbilanciata dall’invito alla festa d’addio a cui sono chiamati gli attoniti interlocutori. Trueba è ironico e sottile nel tratteggiare le dinamiche, sempre uguali, ma sempre diverse dell’annuncio. Imbarazzo, stupore, fastidio, partecipazione, allegria o pianto sono gli affetti che si mescolano con esiti di straniante comicità. Poi l’architettura della ripetizione si approfondisce in una mise en abyme ulteriore. Ale è una regista che sta montando il suo ultimo film che è esattamente quello che stiamo vedendo sullo schermo. Siamo dalle parti del cinema che ripete la vita o forse della vita che non è che ripetizione di ciò che abbiamo visto al cinema, circolarità immancabilmente richiamata da spezzoni di sgranate clip digitali della giovinezza di Ale e Alex in una Parigi piovosa alla ricerca della tomba di Truffaut. Solo che dopo un po’, complice anche l’inevitabile usurarsi del giochino degli annunci ribaditi, il film comincia a girare a vuoto. Trueba, sempre elegante nella composizione delle scene, nelle scelte di montaggio, nelle allusioni e elusioni, cerca di risollevarsi scoprendo le carte. In un ulteriore gioco di specchi il padre di Ale, padre anche dell’idea della festa della separazione, (che è nella vita Fernando Trueba, il padre del regista) consegna alla figlia due libri feticcio: Alla ricerca della felicità di Stanley Cavell, il filosofo dell’ontologia del cinema nonché l’ideologo del rimatrimonio come chiave di comprensione di molte commedie americane degli anni 40 (e probabilmente dello stesso inghippo della festa finale) e La ripetizione di Soren Kierkegaard da cui astrarre la bellissima citazione che potrebbe essere messa ad esergo del film: “L’amore della ripetizione è in verità il solo felice, perché non presenta l’ansia della speranza, né l’angoscia dell’avventura e della scoperta, né la malinconia del ricordo, ma la beata sicurezza del momento presente”. Trueba sembra fare, in modo, in vero, piuttosto pedissequo, delle indicazioni decontestualizzate del filosofo danese l’ideologia manifesta del film, solo che ricercare la fugacità dell’istante ripetuto, scansare programmaticamente ogni conflitto e tensione, perseguire la levità per partito preso, assottigliano lo spessore della narrazione fino a renderlo evanescente. E futile. Per un attimo, in un ritrovato e gratuito momento d’amore fra Ale e Alex che incrina il meccanismo ormai risaputo della ripetizione o forse lo rinventa assegnandoli un nuovo senso, sembra riaccendersi una scintilla, ma l’inquadratura sulla schiena nuda di Ale su cui Alex fa scorrere giocosamente una automobilina gialla che richiama per gli intenditori l’identica scena (lì c’era un modellino di aeroplano) di Wong Kar Wai in Hong Kong Express spreca nella strizzata d’occhio citazionista quell’occasione di reale felicità della ripetizione. Non è che Trueba non si renda conto dei rischi della sua operazione. Anzi cerca di prevenirli con una certa autoironia che sa però di excusatio non petita. Alla proiezione del film di Ale i commenti degli addetti ai lavori sono molto centrati. “È un film con delle cose interessanti, ma è troppo lungo” (e il film di Trueba è esageratamente lungo per un soggetto indovinato, risolvibile però – senza ulteriori sviluppi – in un corto) “Sembra non sapersi decidere fra un film lineare e un film circolare” e, a dispetto delle rassicurazioni del montatore a Ale, il film di Trueba non riesce e probabilmente non vuole essere né l’uno né l’altro. Non giova poi a Trueba, sempre impegnato nel complicare l’intreccio fra finzione e realtà, inserire un richiamo alla serie Los Años Nuevos di Rodrigo Sorogoyen. Ale in una scena va a trovare Francesco Carrril, il protagonista del film del regista madrileno mentre sta girando con Iria del Rio il primo episodio del ciclo. Proprio il confronto con l’opera di Sorogoyen, tutta incentrata sul ritorno del sempre uguale/sempre diverso – l’evento logorato della fine dell’anno – indica quello che manca al film di Trueba: la fenomenologia delle piccole variazioni dei sentimenti, l’attenzione alla nuance degli stati d’animo in mutazione, lo schiudersi dell’emozione.
Anche Trueba con il suo cinema raffinato, prezioso nel suo apparente minimalismo, ricercato nella costruzione dell’immagine, intelligente nella rete di richiami che evoca si inserisce nella nutrita scia di registi, da Mouret a Hang Sang-soo, da Mia Hansen-love a Cèline Sciamma che guardano alla seduzione dell’apparire nella sua semplicità immediata, eppur variegata e inquieta, propria della lezione di Rohmer. Dimenticando però, almeno per il momento, che la superficie può affascinare solo in virtù della sua profondità.
