Mon crime

Se c’è un indice che ci fa capire quanto a François Ozon piaccia fare cinema è la sua capacità di reinventarsi ad ogni nuovo film, attraversando i generi e le situazioni e riuscendo, il più delle volte, a farci immergere nel flusso delle sue narrazioni, ma preservando anche la capacità di mantenere un, a volte straniante, a volte divertito, distacco critico rispetto alla materia trattata. L’avevamo lasciato alle prese con il dramma della buona morte di un inacidito André Dussollier in È andato tutto bene ed ora (dopo la parentesi di Peter von Kant, per motivi imperscrutabili con una distribuzione fantasma in Italia) lo ritroviamo nelle atmosfere vaudeville di una Parigi anni ’30, che sembra uscita da una canzone di Charles Trenet.

Madeleine Verdier, una giovane aspirante attrice squattrinata, che divide una soffitta bohemiène con la sua amica avvocato Pauline Mauléon, è accusata dell’omicidio di un noto produttore che l’aveva attirata, con l’esca di concederle la parte in uno spettacolo teatrale, nella sua sontuosa villa decò per abusare di lei. Madeleine è del tutto innocente – l’assassinio è stato commesso dopo che la giovane aveva abbandonato trafelata la casa dell’uomo – ma le ragazze ( Nadia Tereszkiewicz e Rebecca Marder, in gara fra di loro per bravura e bellezza) intuiscono che il processo potrebbe diventare un trampolino di lancio per la notorietà. Madeleine si autoaccusa, ma invoca la legittima difesa e Pauline, durante il dibattimento, fa leva sull’emozioni del pubblico rivendicando l’innocenza della giovane, denunciando la brutalità abietta dell’uomo e sciogliendo un peana in lode della virtù insidiata e della ingiusta sudditanza delle donne di fronte allo strapotere degli uomini. Il processo è un trionfo, Madeleine è assolta e proiettata verso un sicuro successo… a meno che non compaia all’orizzonte il vero assassino.

La levità frizzante con cui Ozon racconta la sua storia, le ricostruzioni d’ambiente curatissime, iper-realistiche nella loro artificiosità, la brillantezza dei dialoghi da screwball commedy , gli sviluppi paradossali della trama che si intrecciano con una scansione via, via più accelerata, seguendo una partitura lubitchiana e un ritmo che ricorda Billy Wilder (non a caso citato da Ozon) non occultano, ma indirettamente rivelano –  come spesso accade per il cinema del regista francese -le diverse stratificazioni e i raffinati giochi di specchi caratteristici del suo cinema. Anche in un film apparentemente leggero e spensierato come Mon Crime le cose difficilmente sono come appaiono e questo si mostra in maniera ironicamente scanzonata proprio durante il dibattimento in tribunale la cui presentazione, che assume una dichiarata spettacolarità teatrale, tradisce la sua natura provocatoriamente finzionale.  Il soggetto del film è tratto da una pièce dimenticata degli anni ’30, ma l’ardore con cui Pauline difende i diritti delle donne calpestati da maschi gretti e violenti parla evidentemente dei nostri tempi, evocando, in modo neppure troppo nascosto, l’epopea del #metoo. Per questo si è anche parlato, con una certa precipitazione, di un film femminista, mentre l’operazione di Ozon è più  complessa, felicemente ambigua e soavemente polliticaly incorrect. Non si può non notare che la difesa di una buona causa è ordita però attraverso l’inganno e la menzogna, per conseguire poi finalità, il successo personale e la ricchezza, non certo disinteressate. Gli scopi celati – di natura strettamente personale –  contrastano con i fini universali dichiarati (la liberazione delle donne) che vengono declassati a mezzi, eppure, con  un ulteriore capriola, è grazie al sotterfugio che le amiche, strette nella loro lotta da una sincera sorellanza (non priva di sottintesi saffici), riescono ad emergere e farsi beffe di una società grottescamente maschilista. Ma non è finita qui, perché la giostra di inganni e autoinganni, mano a mano che la vicenda si complica, intacca anche altri sistemi valoriali raggiungendo vertici di comicità esilarante nelle performance di maestri consumati come Luchini e Dussolier, l’uno giudice istruttore, l’altro capitano d’industria, esponenti di un vecchio mondo di forme e serietà che arrivano, in nome della giustizia e dell’onestà, a suggerire e utilizzare mezzi abnormemente contrari rispetto i fini perseguiti, inverando in modo rovesciato il meccanismo precedente. Ciò che emerge è così un universo luccicante di edonismo amorale, dove tutti giocano una parte e ne sono nello stesso tempo giocati sullo sfondo di una artificiosità manifesta – quella dei teatri di boulevard e delle allegre pochade, ma perché no, del cinema – che denuncia se stessa, dove tutto permane giocosamente in superficie, anche se, in lontananza, al di là dei fondali di cartone dei tetti di Parigi, si intrasentono i clamori degli scontri sociali che infuocarono in quegli anni la Francia e il cupo presagio della guerra futura. Forse questo il limite del film di Ozon. Probabilmente anche il suo merito.

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