Due amiche si ritrovano dopo molto tempo. La prima, Ingrid, una scrittrice affermata, è reduce da una presentazione del suo ultimo libro, una riflessione sulla mortalità, condizione che la donna non riesce ad accettare ritenendola “innaturale”. La seconda, Martha, sta affrontando le cure per un tumore molto aggressivo: è una reporter di guerra e si è abituata a considerare la morte come qualcosa di ordinario, forse anche banale. Sono in una stanza di ospedale, ma potrebbe essere una showroom di interior design. La degente non veste, come si potrebbe immaginare data la situazione, un composto pigiama, ma una giacca rosso acceso e pantaloni blu oltremare. L’amica giunge con uno strepitoso rossetto bordeaux coordinato con il cappotto e una borsetta intrecciata blu navy. Più tardi, in quella stessa stanza dalle calde pareti di legno mielato, le donne assisteranno affascinate al lento scendere di una neve rosata sullo skyline viola pervinca di Manhattan. Queste immagini potrebbero condensare nella loro preziosità ricercata ed assieme un po’ straniante il mood del film di Almodovar che torna, dopo Dolor y Gloria a riflettere sui temi della fragile vulnerabilità dell’esistenza e della mortalità. Quanto però il film con Banderas era apparso intenso, dolente, malinconico, tanto quest’ultimo lavoro del regista madrileno risulta attenuato nei toni, cerebrale, algido.
Ed è come se Almodovar cercasse di avvicinarsi per gradi, con una certa schiva timidezza al nucleo centrale della sua opera. Tutta la prima parte, incentrata sul riavvicinamento fra le due amiche che avevano lavorato assieme negli anni ’80 e si erano poi perse di vista, è intrecciata con flashback depistanti. La vicenda di Fred, il vecchio compagno di Martha e padre della sua unica figlia, reduce del Vietnam, devastato dalla guerra e morto poi in un inspiegabile incidente, la relazione appassionata di due carmelitani gay nella Baghdad sconvolta dal conflitto potrebbero costituire delle storie indipendenti. Anzi, il racconto della tragica morte di Fred sembra quasi nascere solo da una potente suggestione visiva, l’incendio di un cascinale nella pianura sterminata del Midwest uscita direttamente da un quadro di Andrew Wyeth, che brilla nella sua forza evocativa enigmatica, per poi spegnersi senza produrre riverberi sulla narrazione principale. Quando però le cure sperimentali a cui Martha si era sottoposta per combattere la malattia falliscono e la donna chiede all’amica di accompagnarla nell’ultimo viaggio, il film finalmente approda ad una sponda che aveva, senza sfiorare, a lungo costeggiato. Ma lo fa anche qui con attenta discrezione, smorzando ogni contenuto drammatico, come trattenuto in un limbo. Ed è infatti un limbo di estenuata bellezza il luogo che Martha ha scelto per dire addio al mondo, non accettando di cedere alla malattia, di affrontare il decadimento della mente, lo sfinimento della carne, la sofferenza del morire. “Merito una buona morte”, sentenzia in modo un po’ ridondante Martha. Chi, infatti, non la meriterebbe, viene da dire, anche se i più non possono permetterselo? Martha invece ha acquistato nel dark-web una sostanza letale e ne farà uso quando si sentirà pronta, nel frattempo ha chiesto all’amica di assisterla, stabilendo in anticipo anche il rituale della sua morte: quando Ingrid troverà la porta rosso lacca della stanza dell’amica chiusa, vorrà dire che l’atto finale è compiuto. La lucida, fredda decisione di Martha di padroneggiare il male, stabilendo il luogo e il momento della fine e, addirittura, con una teatralità macabra, la mise e il colore del rossetto che userà, trattiene una fragilità nascosta: la paura della solitudine, l’angoscia del silenzio di una casa vuota. Si capiscono i motivi che portano Martha ad avanzare la sua richiesta all’amica. La sceneggiatura è invece più reticente ed evasiva sulle ragioni che spingono Ingrid ad accettare, caricandosi del peso emotivo della responsabilità per l’amica per lungo tempo dimenticata, tenuto oltretutto conto che, come sapremo in seguito da una Martha non proprio delicata nella comunicazione, Ingrid era stata “una seconda scelta”, verso cui la reporter aveva dovuto ripiegare dopo il rifiuto di amiche più strette. Le due donne si rinchiudono così in una splendida e fredda villa brutalista di cemento e vetro, immersa in una natura incontaminata, dove le rigorose geometrie dell’architettura, tutta spigoli vivi ed angoli netti, sono smussate dal calore morbido dei colori degli interni, perfettamente intonati in un tripudio armocromico di consonanze e dissonanze con le mise finto-casual delle due donne. Come anche, nell’intimità del rifugio, si smussa e si addolcisce il rapporto fra le due amiche. Finché non si giunge nello spazio circoscritto, vagamente spaesante della casa, i rapporti fra le due donne non sembravano essere posti su un piano di parità. Seppur segnata dalla malattia, Martha appariva più forte, determinata, intransigente, addirittura insensibile rispetto al peso emotivo che scaricava sulla amica. Ingrid pareva invece più remissiva, fragile, accogliente; differenza di carattere che si rifletteva nell’espressione delle donne, accentuata dall’indirizzo della fotografia che insiste sui tratti severi del volto altero della Switon, mentre contemporaneamente sottolinea la morbidezza dolce dei lineamenti di Julianne Moore. Le stesse scelte di abbigliamento alludono a questa diversità: spregiudicato nell’accostamento audace di colori primari quello di Martha, di una raffinatezza più sobria quello di Ingrid. Nel silenzio riservato della casa, dopo i primi attriti che evidenziano tensioni nascoste, la relazione fra le due donne si stempera: letture comuni, serate sul divano a vedere vecchi film di Buster Keaton e Ophlus, bagni di sole freddo nelle fantastiche terrazze sul bosco della villa mescolano i caratteri, Martha assorbe in parte la disponibilità di Ingrid mentre nella scrittrice si rafforza la determinazione a sostenere l’amica senza cedimenti fino a quando, durante un dialogo notturno, con le due donne distese fianco a fianco, la macchina da presa isola i due volti dall’ambiente circostante, montandoli assieme in un’unica figura di formale e astratta perfezione, non a caso, l’icona stessa del film.
La morte aleggia nell’aria, ma è prudentemente tenuta a distanza dall’atmosfera sospesa, quasi onirica, di languida e spossata bellezza. Forse sta proprio qui il fascino, ma anche il limite del film di Almodovar: l’estetizzazione della morte può forse trasfigurare nell’universo rarefatto dell’arte l’angoscia della fine, ma lo fa al prezzo di prosciugare l’emozione e il sentimento. Tutto sembra passare attraverso un filtro, come ammorbidito dalle sofisticate pannellature di colore, dalle simmetrie cromatiche e spaziali o mediato da citazioni letterarie, pittoriche, cinematografiche di cui è scopertamente intessuta la pellicola del regista madrileno, come se si avvertisse una ritrosia di Almodovar ad affrontare direttamente il cuore del problema che la scelta dell’eutanasia sottende: la cruda, dolorosa, assurda realtà della nostra finitezza. Che purtroppo, come si sa bene frequentando anche episodicamente una corsia d’ospedale o la camera di una persona in fin di vita, è fatta anche di sofferenza, degrado, disperazione, solitudine, l’eterna e invincibile solitudine del morente. E questo distacco si avverte soprattutto nell’artificiosità di molti dialoghi, che spesso contrastano con la progressiva intimità sottolineata dagli sguardi, dai gesti, dall’avvicinarsi dei corpi delle due bravissime attrici. Ciò che viene detto, invece, sembra più declamato per il pubblico, come una riflessione astratta e saggia, piuttosto che il frutto di una interazione viva fra persone, cosa che risulta addirittura disturbante quando, nel finale, emerge il personaggio di Damian, compagno nella vita prima di Martha e poi di Ingrid, professore universitario e inascoltato grillo parlante che discetta sul legame fra liberismo e riscaldamento globale. Parole sacrosante, ma che nell’insieme dell’opera di Almodovar, appaiono didascaliche e decontestualizzate, mentre stride il legame fra l’eutanasia individuale, presentata come libera e consapevole scelta, e il suicidio collettivo e irresponsabile dell’umanità. O meglio, avrebbe potuto essere il soggetto per un altro film, che ha però poco a che fare con quello che stiamo vedendo. È quasi come se Almodovar avvertisse, come già nella prima parte, il bisogno di divagare, di prendere tempo, di diluire lo sviluppo del racconto, di posticipare una fine che era già iscritta nell’inizio. Nelle ultime immagini una nevicata lieve scende su Ingrid e Michelle, la figlia di Martha, identica alla madre come identiche sono due gocce d’acqua, quasi un fantasma che ritorna, mentre risuonano le parole finali dei Dubliners sul legame misterioso e indissolubile che unisce morti e viventi. Ancora una volta, nella malinconia cerea dello scenario filmato da Almodovar una raffinata trama di citazioni e rinvii – da Joyce a John Huston che girò morente The Dead, tratto dal libro dello scrittore irlandese – avvicina ed assieme allontana, mette fra due splendide parentesi, il senso (o il non senso) della fine. Chissà se ora Ingrid ritiene ancora “innaturale” la morte?
