Aku Wa Sonzai Shinai (Il Male non esiste)

Tutto è chiaro e lineare nel film di Ryusuke Hamaguchi. Tutto è sfuggente, misterioso, enigmatico.

A partire dal significato dell’interminabile sequenza iniziale, una lenta e ipnotica panoramica, come uno sguardo dal basso verso l’alto del cielo intarsiato dal ricamo degli alberi intrecciati di una foresta invernale, con le immagini che si fondono in un’esperienza immersiva con la musica di Eiko Ishibashi. Stratificazioni sonore, dagli accordi iniziali di chitarra elettrica, ad inserti sinfonici attraverso la mediazione di suoni sintetici in una serialità che slitta sempre più verso la dissonanza. La musica di Ishibashi ha un potere evocativo fondamentale nel film di Hamaguchi, che inizialmente nasceva proprio da un progetto ideato con la musicista di un mediometraggio di solo immagini e musica, che è poi confluito nel film che vediamo. Lo scorrere apparentemente incessante e ripetitivo di immagini e suoni ha qualcosa di intimamente connesso con ciò che la cultura giapponese intende con natura. Il termine proprio delle lingue occidentali (natura, nature, natur, naturaleza) non ha un corrispettivo nella lingua giapponese. Derivato dal latino nascor, il termine natura rinvia per le nostre culture alla potenza generativa della nascita, del produrre e del creare. Nella sua lenta evoluzione poi il concetto di natura è diventato, nella modernità, l’ordine deterministico del tutto e quindi, se vogliamo seguire la lezione heidegerriana, fondo a disposizione per il progetto di dominio e trasformazione dell’uomo. In giapponese, invece, si usano termini diversi per esprimere il concetto di natura: banbustu (le diecimila cose) o shizen (letteralmente “così da sé”). Natura è la totalità dei fenomeni nel loro mostrarsi, ma anche ciò che si autoimpone nell’apparire, attraversato dal soffio vitale del Ki, né spirito né materia, ma essenza primigenia che nel suo respiro di condensazione e rarefazione diviene spirito e materia. Non si dà un origine, una nascita, tutto interagisce costantemente, tutto si tiene in un divenire perenne: generazione, trasformazione, dissoluzione. Tutto passa, nulla permane se non il processo che segna l’impermanenza dei fenomeni. Un movimento ritmato, come appunto un respiro, dal manifestarsi, allo scomparire, al tornare alla luce. In un poetico piano sequenza iniziale vediamo la cinepresa seguire con un carrello laterale un uomo camminare nel bosco, mentre sta cercando la figlioletta che, immerso com’è nelle sue attività di factotum del villaggio, ha la cattiva abitudine di dimenticare di andare a prendere a scuola. Lo seguiamo di profilo, lungo il sentiero costeggiato dagli alberi, lo vediamo scomparire, nascosto da un rilievo e, poco dopo, mentre il carrello continua la sua indifferente corsa, riapparire, la figlia in spalla, mentre la istruisce sui segreti del bosco. Takumi , così si chiama l’uomo, vive in una casa ai margini del bosco, spacca la legna, raccoglie l’acqua preziosa di sorgente e le piante mediche della selva, seguendo rituali sempre uguali, con una concentrazione serena che sembra sconfinare nella meditazione. Ma il ritmo lento e misurato della vita di Takumi e della comunità del suo villaggio, che vive in un’armonia idilliaca con la natura, è turbata da segnali inquietanti. Nei boschi si sentono gli spari dei cacciatori venuti dalla città e soprattutto si affaccia il progetto di Playmode, una losca agenzia dello spettacolo che, riciclandosi come imprenditrice di vacanze di lusso, ha acquistato un terreno nelle vicinanze del villaggio con l’intenzione di crearvi un campeggio glamour per far provare agli stressati cittadini di Tokyo, che dista solo un paio d’ore d’auto, l’ebrezza del rapporto diretto con la natura.

Al primo atto silenzioso e quasi immobile con cui Hamaguchi introduce la vicenda, ne seguono così due in cui il tradizionale cinema del regista nipponico, fatto anche di interminabili dialoghi e scene corali, ritorna ad avere il sopravvento. La comunità del villaggio si riunisce nella hall del paese per un briefing con due inviati della società imprenditrice che devono presentare il progetto della nuova struttura, nel tentativo di accattivarsi, con la prospettiva di facili guadagni, le simpatie di quelli che ritengono rozzi contadini. Girata in tempo reale, con l’assenza di colonna sonora che finora aveva sottolineato le riprese, la sequenza dell’incontro è una pagina di gran cinema, dove pur nel rispetto delle convenzioni di una cultura altamente formalizzata, Takumi e i suoi paesani demoliscono i risibili argomenti dei promotori, insistendo con competenza e ampiezza di argomenti sui pericoli che la nuova struttura comporterà per l’ecosistema della zona e soprattutto per la purezza dell’acqua, contaminata dalla fossa settica del camping. Di fronte alla fiera fermezza dei locali, Takahashi e Mayuzumi, i due inviati di Playmode, passano da una supponenza nei confronti dei paesani, fondata sulla confidente fiducia nelle loro capacità di persuasione, allo stupore, all’imbarazzo, alla vergogna, evoluzione che Hamaguchi tratteggia in modo oggettivo, senza prendere partito, attento solo alle dinamiche di interazione del gruppo e alle modificazioni degli stati d’animo collettivi e individuali. Perché tutto si relaziona, si tiene assieme e muta, non solo nella natura, ma anche nei rapporti umani. E questo lo si capisce ancora di più nel viaggio in auto che riporta Takahashi e Mayuzumi al villaggio, dopo un frustrante incontro in videoconferenza con il loro capo, a cui avevano cercato di spiegare i problemi del progetto, ottenendo come risposta la necessità di stringere i tempi per poter procurarsi i sussidi statali promessi. Qui, ancora una volta nello spazio chiuso e in movimento di un automobile, così caro all’estetica di Hamaguchi, avviene una nuova trasformazione, una illuminante presa di coscienza. Il regista nipponico è bravissimo nel condurre questi dialoghi sospesi fra il banale, il fortuito e il profondo, che segnano una nuova mutazione nei personaggi. Takahashi e Mayuzumi a poco a poco si spogliano di quella allure da imbonitori da quattro soldi, assumono una nuova umanità e un nuovo spessore, decidendo di schierarsi con le ragioni del villaggio. Si apre così lo spazio di una mediazione, sancito dall’iniziazione all’attività di taglialegna di Takahashi, ma poi, ancora una volta, in un film che appare statico, ma vibra invece di inaspettati colpi di scena, la situazione si rovescia in un finale spiazzante che può sicuramente disturbare lo spettatore perché sconvolge il racconto fin qui dipanato, lasciando solo una serie di interrogativi aperti.

Perché il male non esiste? Forse perché non esiste neppure il bene. O meglio: male e bene non esistono come due polarità separate che si contrappongono ed elidono a vicenda in un gioco a somma zero, come poteva apparire, un po’ troppo facilmente nell’opposizione fra gli onesti contadini e la logica del profitto dell’azienda rappresentata dagli inviati di Playmode. Male e bene non possono sussistere l’uno senza l’altro, sono connessi e correlati, come ogni opposto, dal respiro del Ki. Nel divenire avvolgente della natura e nell’oscurità dell’animo di ogni uomo.

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