Già i sentieri si confondono, ma forse lì c’è la chiave per fare luce sul mistero. Nella notte, una donna di colore cammina lungo una spiaggia con una bambina addormentata in braccio, mentre la risacca del mare copre il rumore dei suoi passi sulla sabbia. Il suo sguardo è assieme distante e amorevole. Stacco di montaggio. Un’altra donna, sempre di colore, si sveglia di soprassalto nella notte. Il suo compagno la rassicura. È stato solo un brutto sogno, anche se nell’agitazione del sonno, la ragazza aveva pronunciato più volte il nome della madre. La donna della spiaggia è la madre di questa giovane? Abbiamo assistito ad un flashback o ad un incubo?
Poi rivediamo Rama, la donna del brusco risveglio. Seria e sicura di sé in una cattedra universitaria presenta ai suoi studenti un filmato in bianco e nero dei giorni della Liberazione in Francia. Alcune donne, probabilmente amanti o compagne dei nazisti, sono rasate in pubblico, ed esposte al ludibrio dei concittadini. Sono chiaramente colpevoli. Lo denuncia il loro silenzio e la loro rassegnazione. O non sono forse dei facili capri espiatori – proprio perché donne – di una nazione in buona parte collusa con l’occupante? E non è forse questo rimosso che emerge silenzioso dietro lo scherno di questa lampante umiliazione?
Basato su un caso reale di un infanticidio, perpetrato con estrema lucidità e freddezza dalla madre di una piccola di pochi mesi, abbandonata ad una morte orribile sulla battigia, in balia del risucchio della marea, il film di Alice Diop, secco ed essenziale fino all’astrazione, mette in scena il processo della assassina, seguendo tutto il rituale degli interrogatori e delle testimonianze in contrappunto con lo sguardo di Rama, che segue dal pubblico il caso su cui, si intuisce, sta costruendo la trama di un romanzo.
Apparentemente è tutto chiaro. La donna, una ragazza di Dakar, figlia di una famiglia della buona borghesia senegalese, emigrata per studiare filosofia in Francia – dopo aver cercato maldestramente di celare il crimine – ha confessato l’atto. Il dove, il quando, il come e il chi sono lampanti, ma l’evidenza di questi passaggi oscura ciò che maggiormente inquieta e assedia la mente di chi sta seguendo il processo, dentro l’aula, come il bellissimo personaggio della giudice, e al di là dello schermo. Perché?
Come in una tragedia greca, delle maschere, ora fredde e sprezzanti come il pubblico ministero, ora vibranti di emozione e pietà come l’avvocato della difesa cercano di spiegare l’incomprensibile. Per l’accusa Laurence – questo è il nome della donna – è una bugiarda, arrogante e manipolatrice. Durante l’indagine non ha fatto altro che mentire e cambiare la sua versione dei fatti quando è stata costretta dall’evidenza delle prove a carico, fino ad attaccarsi al risibile argomento di un incantamento che l’avrebbe stregata e costretta all’omicidio. L’algida ragione critica illuminista, disincantatrice fino ad essere beffarda, si mostra nelle parole del magistrato. Per l’avvocata della difesa, come spiega in una appassionata aringa, l’unica giustificazione possibile è invece la follia e Laurence deve essere compatita, più che perseguita, curata, più che punita. Anche qui, uguale e contraria, viene alla luce una figura della ragione occidentale: la comprensione del diverso, la sua accoglienza benevola e giustificante. Ma si sta realmente penetrando il fondo oscuro di quell’atto o si costruiscono solo barriere difensive? Proiezioni del nostro io collettivo sull’altro? Fredda malvagità o disperata pazzia: motivazioni a prima vista opposte ma accomunate da una stessa finalità di rimozione razionalizzante: rendere accettabile l’insopportabile, tradurre in parole l’indicibilità della contraddizione. Il fatto che amore e pulsione di morte si coappartengono. Laurence nel suo comportamento accredita entrambe le versioni della accusa e della difesa, mente spudoratamente, ma in modo così ingenuo, palese e controproducente da suggerire uno squilibrio. Eppure è lucida, controbatte alle accuse, insinuando dubbi e seminando ad arte incertezze, ma in questo modo sembra tradirsi, suggerendo un metodo nella sua follia. È impassibile durante tutto il dibattimento, ma scoppia in un pianto liberatorio alla sua conclusione. Il suo enigma è trattenuto nella prima, quasi insostenibile presentazione. La camera fissa la inquadra mentre, per un tempo cinematograficamente infinito, racconta monotona la sua storia, in modo che, un po’ alla volta, la sua voce passa in secondo piano e ci concentriamo sulla sua figura; il completo color bruno chiaro si confonde sullo sfondo della boiserie castagno, mentre il colore ebano della pelle si adatta, tono su tono, alle sfumature più scure del legno. Brilla solo il nero profondo dei suoi occhi. E un po’ come se la sua immagine si cancellasse, schiacciata dalla colpa, già condannata prima che il dibattito sia iniziato. Oppure il suo è un mimetismo, un essere camaleontico che si adatta per sfuggire, per rendersi inafferrabile. Laurence è la figura dell’ambivalenza e si rispecchia nel volto angosciato di Rama che segue impietrita il dibattimento, sempre più misteriosamente attratta dal buco nero verso cui l’alterità di Laurence fa segno. Le comuni radici, l’esperienza dell’immigrazione le uniscono e sembrano convergere verso un segreto su cui la sceneggiatura indugia con reticenza. Rama aspetta un figlio e sconta un rapporto difficile con la madre, che nella sua adolescenza l’aveva oppressa con il suo mutismo e la sua presenza assente, ma anche qui la regia suggerisce e accenna, con ambigui flashback e allusivi silenzi invece che spiegare e chiarire.
È come se l’occhio oggettivo, nitido della macchina da presa, utilizzata con uno stile asciutto, quasi documentaristico (da quel genere proviene la regista) celasse più che rivelare, ma nello stesso tempo, è proprio questo rimanere sospesi tra la sobrietà dello sguardo, che registra impassibile il dramma, e l’enigma dei volti ripresi, che lascia emergere un rimosso la cui incombenza continuerà a perseguitare lo spettatore: siamo presenze chimeriche, siamo combinazione contraddittoria di istanze in conflitto e il disumano e il mostruoso sono solo termini pietosi per velare tutta la nostra tragica umanità.
