Italia anni ’50, in un metacinema a mezza via fra il neorealismo rosa e i peplum-film, Saverio Costanzo ci racconta le strabilianti 24 ore di Mimosa, timida ragazza romana – una vita già segnata come promessa mogliettina di un corpulento poliziotto – che mentre candida e inconsapevole accompagna la sorella smaliziata a Cinecittà per una audizione come comparsa, sprofonda, senza quasi accorgersi, nel mondo delle meraviglie della celluloide. Inavvertitamente incrocia, persa fra i corridoi degli studios, lo sguardo fatale di una diva del cinema, Josephine Esperanto, – mostro sacro delle riviste patinate che la ragazzetta divora con ingordigia – che per un capriccio saffico la vuole al suo fianco nella scena culminante del peplum-film che sta girando. Ma è solo la superficie del gorgo di una notte brava in cui una recalcitrante ed assieme stregata Mimosa sarà risucchiata fra taverne alla moda, feste torbide, produttori lascivi, star scostanti, artisti meschini, dive altere e crudeli ancora più dei personaggi che interpretano e tutto il sottobosco di una Roma notturna e viziosa, introdotta in questi gironi inferi da un William Defoe, Virgilio gentile, ma sbadato, che si dimentica continuamente di riportarla a casa. Ovviamente si sprecano le citazioni delle atmosfere dalla Dolce Vita, con Valeria Ciangottini costretta a passare dall’altra parte della sponda che la separava da Marcello, e Saverio Costanzo riesce anche a trovare, a volte, la giusta alchimia fra l’innocenza dello sguardo di una sperduta Cappuccetto Rosso e i molti lupi che affollano la notte, anche se, proprio nei momenti di maggiore emozione, rischia di strafare, dilatando e caricando eccessivamente di tensione drammatica certe scene, già di per se stesse esplicite. Non aiuta Costanzo poi il fatto che possa venire in mente, per associazione di idee, un’altra notte folle, quella del grigio travet Griffin Dunne/Paul Hackett dell’indimenticabile After Hours di Martin Scorsese. E il confronto non giova certo al regista italiano. Alla fine, Mimosa si risveglia più grande e matura, capace di sostenere lo sguardo del suo idolo – viso struccato, capelli scalpati sotto la parrucca, ma anche qui Costanzo non si accontenta e conclude con un metaforone di cui non si sentiva il bisogno. Mimosa ha domato il leone dell’ignoto, che cammina mansueto al suo fianco nell’ultima sequenza e non farà la fine della povera Wilma Montesi il cui fantasma aleggia macabro per tutto il film. Che poi a casa, probabilmente, l’ammazzino di botte è un’altra storia.
