Se poi esistesse un Dio Signore e Creatore dell’Universo ci sono diversi indizi che ci lasciano presupporre che sarebbe un gran burlone. Uno di questi è la sorte degli Osage, orgoglioso popolo pellerossa delle pianure, braccato e decimato da coloni e soldati e poi deportato e destinato ad estinguersi nelle brulle e inospitali terre dell’Oklahoma che in seguito, con gran cruccio dei bianchi, si rivelarono galleggiare su un mare di petrolio. Diventati, nei primi decenni del ‘900, inaspettatamente ricchi gli Osage dovettero però scontare l’ulteriore capriola del divin burattinaio. Poco avvezzi alla competizione ferina del capitalismo, divennero facile preda di affaristi, tanto crudeli, quanto scrupolosi, che si affannarono con metodo a rapinarli delle loro ricchezze tra sotterfugi, circollocuzioni di incapaci, tradimenti e assassini a ripetizione.
Questo il contesto dell’epico, smisurato, funebre film di Martin Scorsese che ha un inizio folgorante nella bolgia di un mondo rovesciato dove gli Osage si pavoneggiano in redingote e pelliccia su sontuose limousine e i bianchi lividi, miserabili e rabbiosi si accalcano per trovare un lavoro nell’industria petrolifera sullo sfondo della distesa a perdita d’occhio di pozzi, pompe e trivelle, mentre la cittadina fangosa e febbrile è attraversata da corse concitate di sferraglianti bolidi retro-futuristi. Poi però, non appena l’ingenuo Ernest (Leonardo DiCaprio), di ritorno dalla grande guerra nelle prime scene del film, entra negli ambienti ovattati e tetri della casa dello zio (Robert De Niro), avido magnate della zona, il ritmo ha una frenata brusca e la narrazione si addentra così con misurata, e a tratti esasperante, lentezza in un estenuante viaggio nelle tenebre della violenza bruta, esercitata da una volontà di potenza smodata, anche se ciò che sembra interessare maggiormente al regista americano è la passiva condiscendenza di coloro che sono soggetti alle macchinazioni malvagie del dominio.
Tutto il film, complesso, tortuoso, che tesse e aggroviglia intrighi e inganni, accumulando personaggi e crimini, ruota attorno ad un triangolo di relazioni che si disegna tra il luciferino William Hale, padrino e subdolo protettore degli Osage, in realtà loro boia neppure troppo occulto, l’ottuso nipote Ernest, uno sprovveduto inetto facilmente manovrato dallo zio, e Mollie Kyle (meravigliosa Lilly Glandestone), ricca ereditiera Osage, che brilla di una bellezza quieta e remota, in cui si trattiene il dolore antico del suo popolo. I primi problemi, di casting oltre che di sceneggiatura, nascono proprio dal modo in cui Di Caprio, concentrato per tutto il film nello sforzo, riuscito fin troppo bene, di apparire come uno stolido beota, riesca a sedurre l’altera ereditiera, una sorta di regina triste che promana un fascino assieme misterioso e innocente. Molto più convincente è invece l’opera di manipolazione e degrado compiuta da Hale nei confronti del nipote. Anche qui però l’interpretazione di De Niro pecca forse in eccesso, l’attore si incarna nel ruolo con una professionalità zelante e testarda pervicacia ottenendo però, alla lunga, (le tre ore e passa non aiutano) il risultato di apparire come una maschera grottesca, dissolvendo ogni possibile traccia di ambiguità dal personaggio. Ernest, nonostante sia sinceramente innamorato della moglie, accondiscende servile a farsi mezzo delle turpi trame dello zio, prima concentrato nello sterminio della famiglia di Mollie, poi nel suo lento e inesorabile avvelenamento per impossessarsi della sua eredità. Mano a mano che il cerchio si stringe attorno alla donna e cominciamo ad assistere alla sua agonia snervante, popolata da allucinazioni ed incubi, il film, se possibile, rallenta ulteriormente, assumendo un andamento quasi ipnotico nell’incombere della colonna sonora che mescola in modo straniante blues e ritmi nativi, nella prevalenza dei toni cupi e rossastri, delle luci tremolanti, delle atmosfere livide, ma acquista assieme anche quella grandezza tragica che fino a quel momento non aveva ancora toccato. La sequela degli assassini precedenti, nella ripetitività piuttosto prevedibile delle situazioni, rischiava di assumere una dimensione ragionieristica nel computo meticoloso dei delitti, ma nello spegnersi allucinato ed assieme rassegnato di Mollie, che sembra quasi concedersi ai suoi carnefici, si vede in controluce la catastrofe culturale di una società e di tutto un mondo, quello degli Osage, che non può più trarre linfa vitale dalle sue radici spezzate, che in nome di una fedeltà candida ai principi di lealtà preserva una fiducia irragionevole nei confronti dei propri aguzzini, che non riesce più ad orientarsi in un mondo ormai alieno. Di fronte alla rapacità predatoria di Hale, alla sua ipocrisia bieca che è il rovescio della medaglia della sua ferocia fredda, si contrappongono i diversi atteggiamenti delle vittime. Da un lato il nipote, plagiato e corrotto, rappresenta quella che La Boètie chiamava la “Servitù Volontaria”, il rendersi complice della forza dominante per mancanza di vigore, coraggio, per paura della libertà, per limitatezza d’animo e cupidità di asservimento, perché il proprio vuoto interiore può essere colmato solo riconoscendo l’altro come signore (“chiamami Re” è la condiscendente presentazione del vecchio patriarca al nipote) e trovando almeno così un proprio ruolo come correo nel male. Anche Mollie, come la sua famiglia e il popolo tutto degli Osage, è schiacciata dalla violenza di un potere dispotico e criminale, sia questo quello dello Stato che li ha sterminati o delle mafie che stanno completando l’opera, ma la sua risposta è, pur nel dolore infinito del lutto, espressione invece di una fierezza antica che preferisce la morte piuttosto che accettare le nuove spietate regole del gioco. Poi nell’ultimo terzo, il film riprende ritmo, anche se perde profondità, con l’inchiesta che inchioderà – seppur con molte reticenze e pelose attenuanti – Hale e la sua cricca alle loro responsabilità. Ma “l’arrivano i nostri” con i Federali che mettono fine alla sequela di misfatti di Hale non conduce il film ad un rassicurante, seppur tardivo, happy end. Un ultimo contro finale, nell’immaginario studio di registrazione di uno spettacolo radiofonico anni ’30, racconterà, in toni fra il parodistico e il lacrimevole, l’epilogo della vicenda e la sorte dei diversi personaggi. Come dire che il dramma si è fatto commedia, soggetto per uno spettacolo di intrattenimento. Con tutta l’ambiguità consapevole della situazione (non a caso Scorsese si concede in questo siparietto un cameo illuminante) the show must go on, e anche il film che abbiamo appena visto, pur nella sua onesta volontà di denuncia, dichiara apertamente di vivere in modo parassitario sulla tragedia di un popolo sventurato.
