Nei primi mesi del 1979 si sgretolava in Iran il potere di Reza Pahalvi suscitando nella società persiana un’ondata di nuove speranze. Proprio in quei giorni tornava dall’America a Teheran Azar Nafisi, docente di letteratura inglese, figlia di prestigiosi esponenti dell’opposizione laica alla tirannia dello scià, che contava di poter contribuire con le sue competenze e la sua energia alla rinascita del suo paese. La svolta oppressiva imposta dal regime oscurantista degli ayatollah, aggravata da otto anni di conflitto con l’Iraq che legittimarono, nel clima manicheo generato dalla guerra, l’intransigenza integralista del clero islamico, fece ben presto naufragare le aspettative di tutta una importante fetta dell’intellighenzia iraniana che aveva combattuto lo scià nel nome dell’affermazione di una democrazia progressista e non certo per far piombare il paese in un medioevo cupo e dispotico. Il film ripercorre attraverso l’esperienza di Azar, professoressa di lingua e letteratura inglese all’università di Teheran, tutto questo processo: dall’illusione di libertà vissuta in prima persona soprattutto dalle studentesse di Nafisi, affascinate dalle nuove prospettive di lettura del mondo che le lezioni della professoressa offrivano, alle resistenze ottuse di studenti fondamentalisti, che pretendevano di utilizzare il Corano come metro di giudizio per il valore di un’opera letteraria, alle violenze brutali della polizia di regime che stroncarono sul nascere le velleità di riforma, infierendo soprattutto – con brutalità perversa – sulle studentesse di Azar, fino al calare progressivo di una cappa di terrore e sopraffazione. In questa atmosfera tetra, l’unica forma di resistenza per Azar Nafisi, che aveva abbandonato l’università per evitare di piegarsi al nuovo corso, e per le sue studentesse, sarà quella di continuare a studiare clandestinamente quei romanzi e quelle poesie che il regime aveva proibito, trovando nella bellezza e nella profondità dell’arte un antidoto contro la meschina ferocia di un potere retrivo e, sostanzialmente, stupido. La storia è bella e terribile – un soggetto che nasce dallo stesso libro, Leggere Lolita a Teheran, di Nafisi. Peccato che la regia di Eran Riklis risulti piatta, prevedibile, didascalica. Tutto è come ci si aspetterebbe: la crudeltà della repressione, la brutalità volgare dei censori e degli scherani del potere – incarnati, ad esempio, dalle orride sorveglianti dell’università in divisa da Belfagor – a cui si contrappone l’idealità nobile dei difensori della libertà di pensiero, appena velata da una malinconica ironia che sugella l’illuminata superiorità morale, e culturale, dei buoni (la professoressa e un amico, anche lui cacciato dall’università) sui cattivi. Impegnato a tratteggiare a tinte forti questa contrapposizione – con scelte di regia piuttosto ingenue e una messa in scena imbarazzante nelle scene corali degli scontri fra studenti e sostenitori del regime – Riklis è molto più sbrigativo quando prova a farci capire quali stati d’animo, quali sentimenti, quali speranze, ma anche probabilmente quali turbamenti, dubbi, ansie la lettura dei testi proposti da Azar provochi nelle sue giovani studentesse. Si tratta solo della fascinazione di un mondo proibito, una forma di evasione da una condizione di subordinazione e umiliazione? O c’è qualcosa di più: una consapevolezza e una nuova forza che solo questa esperienza poteva offrire loro? Far dire all’amico di Nafisi che Khomeini è l’incarnazione di Humbert Humbert, un vecchio bavoso che violenta un paese così come il professore aveva fatto con una bambina innocente, può funzionare come battuta, ma ci fa andare poco avanti nella comprensione. Possibile che solo la violenza costringa un intero popolo a piegare la testa davanti al capriccio di un pugno di fanatici? Ci sono un paio di personaggi, uno studente e una studentessa di Nafisi, che dovrebbero incarnare un punto di vista esterno alla contrapposizione manichea, ma sono fragili, poco sviluppati, schiacciati in una ipocrisia pavida o in una ingenuità disarmante. Qualcosa di più emerge, anche grazie alla buona prova Golshifthen Farahani, quando il focus del film si sposta sul latente conflitto fra la giovane professoressa e il marito, sulle ragioni che spingono la donna a voler abbandonare l’Iran e con questo anche la speranza di agire perché qualcosa cambi e la volontà del marito di restare per provare a resistere, ritagliando, almeno negli ambiti angusti del proprio privato, uno spazio di autonomia e libertà in attesa di tempi migliori. Ma si tratta anche qui di semplici accenni che non vengono ulteriormente approfonditi.
Si potrebbe così dire un film necessario nel soggetto, si spera (visto che la produzione è israeliana…) onesto nelle intenzioni, ma piuttosto superfluo, se non proprio sciatto nella realizzazione, che sembra disdire quello che la sceneggiatura afferma. Per far comprendere l’importanza della letteratura davanti all’idiozia beghina dei suoi studenti islamisti, Azar Nafisi spiegava che la lettura di un romanzo non ci disvela verità assolute, protette dal dogma, ma è più portata a suscitare dubbi, a farci vedere le cose da un punto di vista nuovo, problematico, inaspettato, a mettere in crisi le nostre credenze, piuttosto che confermarle. Ecco, proprio quello che manca al lavoro di Eran Riklis.
