Emilia Perez

Emilia Perez di Jaques Audiard, a dispetto delle sue tinte sature, delle emozioni estreme che evoca, della tendenza all’eccesso da cui è pervaso, è una sorta di Odradek, un oggetto curioso, o forse un animaletto bizzarro: “tutto l’insieme per quanto assurdo, appare comunque di per sé compiuto. D’altro canto, è impossibile parlarne in modo più particolareggiato, poiché Odradek è estremamente veloce e sfuggente”. Certo non dobbiamo pensare alla concisa profondità metafisica dell’antecedente kafkiano. Qui c’è un Odradek depotenziato che si adatta, e qualcuno potrebbe insinuare cavalca, lo spirito dei tempi e così, per indebolire i riferimenti dotti potremmo dire, con una citazione meno elevata, che Emilia Perez è un film su un boss del narcotraffico e sul Messico dominato dalla violenza e dalla corruzione (interpretazione non particolarmente apprezzata in loco), ma anche un musical, un melò, ma anche un thriller, una storia di rinascita e riscatto, ma anche un film d’azione, una smaccata provocazione, ma anche un’operazione che potrebbe essere guidata da un certo conformismo dell’anticonformismo. E ciascuna componente dell’insieme, come le parti eterogenee con cui è assemblato Odradek, funziona in costante tensione con le altre suscitando l’impressione di indefinibilità del tutto.

Manìtas, il più crudele ed efferato boss del narcotraffico messicano, decide di abbandonare la sua vita brutale per ritrovare il suo vero sé, diventando donna. Per questo si affida agli uffici di Rita, preparatissima avvocatessa, sfruttata da senior partner incompetenti al servizio più del crimine che della giustizia. L’operazione riesce perfettamente, Rita rintraccia il miglior chirurgo del settore, organizza la finta morte del boss che invece scompare nel nulla con la sua nuova identità, cura il trasferimento della moglie Jessie e dei due figli piccoli in Svizzera al riparo da possibili vendette e finalmente ottiene, a compensa dei suoi servigi, una montagna di soldi con cui può riiniziare una nuova vita. Ma come il rimosso che ritorna, Emilia, il nuovo io di Manìtas, ritorna nella vita di Rita. Affranta dalla nostalgia per i figli, Emilia chiede a Rita di riportarli assieme alla moglie Jessie con lei in Messico, dove con l’aiuto dell’avvocato, con cui si consolida un profondo rapporto di sorellanza, promuoverà la creazione di un’ONG dedita a rintracciare le spoglie delle migliaia di desaparecidos, vittime della ferocia della criminalità organizzata messicana. Ma proprio quella violenza che sottende cupa tutto il film è pronta a riesplodere…

L’improbabilità del tutto si combina in modo inaspettatamente efficace con la dimensione febbrile del musical che Audriad filma, imprimendo, fin dalle prime scene corali, una energia dirompente all’azione ed una velocità di mutamento tesa a spiazzare costantemente lo spettatore tanto da non renderlo consapevole della vorticosa navigazione che sta intraprendendo fra gli scogli di Scilla e Cariddi: del grottesco da una parte e, dall’altra, della essenzializzazione del personaggio principale che vorrebbe essere invece, almeno nelle intenzioni, la cifra del mutamento e della compresenza degli opposti . Tutti coloro che Emilia avvicina, prima o poi, sono segnati da una profonda trasformazione, mentre lei stessa nel suo mutamento di identità fa segno verso la dimensione dell’ibridazione che è la scelta formale che caratterizza l’opera di Audriad. Solo che, la storia di rigenerazione che il regista francese racconta rischia di separare le due polarità del personaggio di Manìtas/Emilia in modo troppo schematico. Il cambiamento di sesso trasforma radicalmente la natura stessa del/la protagonista: tanto il boss era freddo, feroce, spietato, tanto Emilia è sensibile, dolce, altruista e quando, ferita nei suoi affetti più cari, risponde con brutalità alla sua ex moglie che vorrebbe risposarsi strappandole i figli, riemerge nel tono cupo della voce e nella violenza della postura il maschile che era stato letteralmente estirpato dall’operazione chirurgica. Come se in Emilia convivessero sì due nature, a seconda dei casi represse – il femminile che Manìtas, per sopravvivere nel “porcile” dove era nato, necessariamente dovette rimuovere diventando più malvagio e inumano degli altri suoi antagonisti;  il maschile, che cova come un ombra tetra nel cuore di Emilia – ma ciascuna chiusa in sé stessa, non comunicante ed in persistente sordo conflitto con l’altra, senza spazi di contaminazione, senza ambiguità, ma anzi separate fra loro da un marcato e politicamente corretto  giudizio di valore. Eppure, proprio nel momento in cui ci sembra di aver stretto in un angolo il nostro Odradek, eccolo che scappa o meglio si materializza da un’altra parte, perché in fondo la reazione selvaggia di Emilia davanti alla minaccia di vedersi allontanata dai figli è il rigurgito dell’orgoglio ferito del macho virile, ma anche la reazione disperata e belluina della tigre che protegge i suoi cuccioli, così come al culmine del dramma quando Emilia si confessa a Jessie, rivelandole la sua doppia natura, c’è assieme la tenerezza di Emilia, ma anche l’antico amore di Manìtas. Insomma, se ci si avvicina molto a Cariddi, scarti improvvisi, come quelli che caratterizzano le danze molto nervose e a volte quasi meccaniche delle coreografie scelte da Damien Jalet, ce ne allontanano. Nei confronti dei pericolosi contrafforti di Scilla, il grottesco, la caricatura contro cui potrebbe naufragare l’impresa di Audriad, ci protegge invece la bravura impressionante del gruppo di attrici che anima il film, che riescono grazie all’umanità traboccante delle loro interpretazioni a rendere vere e vissute le situazioni più improbabili. Guardando Zoe Saldaña, finalmente non dipinta di blu, non si riesce mai a comprendere se è più brava o straordinariamente bella (ed è una lotta all’ultimo sangue), Selena Gomez è assieme una bambolina capricciosa ed un vulcano di energia mentre Karla Sofia Gascon trasmette nella ributtanza dei primi piani di Manìtas, una delicatezza remota così come incarna con spavalda disinvoltura la sensualità morbida e ammaliante di Emilia che occulta però le tracce impercettibili di una fierezza antica.

Ma in fin dei conti il segreto di Emilia è meno misterioso di quanto vorrebbe far credere la processione finale che chiude il film con un tocco di esotismo un po’ scontatoto, subito però disdetto dalla incongrua presenza, al di sotto delle parole riscritte per l’occasione, della bellissima musica, terribilmente chansonnier francese, di George Brassens che con quella situazione nulla c’entra (o forse sì, visto che Les Passantes è un inno all’eterno femmineo). E sta tutto nella sorprendente capacità che il regista francese ha di combinare gli elementi eterogeni del suo cinema e fonderli assieme al di là di sensi o significati riposti. Lo si vede, ad esempio, nelle scene più esplicitamente musicali. Diciamolo, Camille e Clement Ducol non sono John Kander o Cole Porter così come Damien Jalet non è Balachine, ma nemmeno Stanley Donen, ma il modo con cui Audriad insegue i suoi protagonisti da angolature pazzesche, spezza e assieme fluidifica l’immagine, fa esplodere la scena in parossismi frenetici e poi la trattiene sospesa in momenti di intensa drammaticità come nei duetti fra Emilia e la figlia o fra Rita e il chirurgo israeliano, valgono interamente il film.

Quindi, istruzioni per l’uso: non cercate di acchiappare l’Odradek e di metterlo in gabbia. Scordatevi il messaggio, lasciate il cinismo guardingo fuori dalla sala e fatevi prendere dal flusso. Magari, andando a casa, leggerete la recensione di qualche Solone che vi spiegherà che vi siete fatti prendere per il naso, che è tutta fuffa, apparenza, manierismo e non c’è nessun Odradek ma la logica del marketing che ha costruito a tavolino una merce pronta all’uso: temi scabrosi à la page e buoni sentimenti shakerati assieme con molto mestiere. Pazienza. Avrete comunque passato due ore di puro, ingenuo e, a patto che vi lasciate andare, ma vi assicuro che vedendo Zoe che balla in completo di velluto rosso è facilissimo, sfrenato divertimento. E di cinema, cinema.

 

 

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