Puan

Aristotele aveva messo in guardia gli aspiranti filosofi: dato che la filosofia è un sapere fine a se stesso, privo di qualsiasi utilità diretta, è necessario per l’esercizio del libero pensiero una indipendenza sovrana dalle uggiose questioni quotidiane del dover mettere assieme pranzo e cena, mantenere una famiglia, arrotondare il magro e saltuario stipendio con lezioni private a vecchie e ricche signore scorbutiche  e comparsate a feste di compleanno, presenziare alle attività scolastiche dei figli, supportare la moglie nelle lotte sindacali e brigare per ottenere un posto di professore ordinario all’Università. Purtroppo, nell’Argentina contemporanea, ma probabilmente non solo lì, è molto difficile raggiungere questa condizione di rilassato disinteresse. Marcello è un onesto lavorante della filosofia, formatosi all’ombra del suo maestro il prof. Castelli, da cui prudentemente non si distacca, glossando le opere del suo mentore e perpetuando il suo magistero nell’università di Puan a Buenos Aires, assediata da un mondo esterno volgare e arrembante, del tutto indifferente ai valori della cultura che sembra essere la vittima predestinata dei tagli draconiani imposti dalla crisi economica perenne in cui si dibatte il paese sudamericano. Ma l’ambiente universitario in cui si muove Marcello sembra aver metabolizzato questa condizione di precarietà ed emergenza persistente, cercando di ritagliarsi una nicchia di sopravvivenza fra locali fatiscenti e strutture obsolete in cui perpetuare i propri rituali. La morte improvvisa del prof. Castelli apre però uno spiraglio di possibilità a Marcello, che può ambire a succedere al suo maestro se non fosse che all’orizzonte appare un competitor temibile: Rafael Sujuarchuk, un allievo del vecchio barone che aveva fatto carriera in Germania ed è tornato a Buenos Aires circonfuso di un alone di successo. Maria Alché e Benjamin Naishtat, sceneggiatori e registi, si divertono ad insistere sulla differenza antropologica che contrappone Marcello e Rafael. Quanto il primo è modesto, grigio, demodé, impacciato da un corpaccione goffo e coronato da una calvizie incipiente, tanto l’emigrato è carismatico, brillante, modaiolo, fascinoso con i suoi riccioli brizzolati scolpiti dal gel e le sue mise finto-trasandato (quelle di Marcello sono invece trasandato-autentico). Sul prezzo, per non farsi mancare nulla, Rafael è anche fidanzato con una diva del cinema che sbaciucchia distaccato davanti alle telecamere. Le coordinate della commedia sociale sono così poste e anche la sua prevedibile evoluzione. Se la regia non preme in modo eccessivo sul pedale del grottesco – come in alcune sequenze un po’ troppo costruite per strappare un facile sorriso allo spettatore – la narrazione sa tratteggiare con delicatezza la figura di un personaggio dimesso, ma sincero, trascinato dalla necessità a doversi addentrare nel labirinto delle piccole e meschine trame di potere che disprezza, ma a cui non può che assoggettarsi pur se del tutto sprovveduto, non tanto di conoscenze e competenze culturali, ma di quella raffinata doppiezza e dissimulazione ipocrita in cui eccelle il suo avversario. Per fortuna, il film non cade però nella trappola di costruire, di fronte allo charme fasullo di Rafael, un antieroe vessato da un destino cinico e baro, non nascondendo i limiti e le fragilità di Marcello, la sua accidia intellettuale così come il suo opportunismo intempestivo, ed è proprio grazie a questo lavoro di relativizzazione che riesce ad approfondire lo spessore umano del personaggio, al di là della deriva macchiettistica che, purtroppo, rimane qua e là sempre in agguato.

Così dei due finali del film preferiamo di gran lunga il secondo. Nel primo la chiusura dell’università schiacciata dai debiti dello Stato, scatenerà la reazione ribelle degli studenti che occuperanno le strade, organizzando lezioni aperte con Marcello trasformato, in modo abbastanza sorprendente, in capopopolo e Rafael riottoso che arranca alle sue spalle, un po’ impaurito, ma finalmente redento dalla sua vacuità grazie all’esempio del collega. In effetti, nonostante la carica di denuncia sociale che piacerà al côté impegnato degli spettatori, ritrovare Marcello alla guida della rivolta sembra più l’esito di un sogno ad occhi aperti di riscatto dell’oscuro professore, che una possibilità inscritta nella narrazione che fino allora avevamo seguito. Più centrato e commovente è invece il secondo, inaspettato finale. Marcello si decide finalmente a tenere una lezione in una sorta di università popolare in Bolivia, invito che aveva a lungo declinato, in modo in vero meschino, perché non offriva gratificazioni accademiche e tanto meno pecuniarie.  È una situazione che aveva già sperimentato a Buenos Aires, dove per arrotondare si produceva in barbose dissertazioni sul pensiero di Hobbes e Rousseau in centri culturali di quartiere, di fronte ad un pubblico perplesso e distratto. Qui invece, davanti ai volti nobili e impenetrabili degli indios che attendono curiosi, ma diffidenti la lezione del professore, Marcello non ce la fa a mantenere il suo ruolo professionale e, timido ed emozionato, intona invece un vecchio tango di Cadicamo e Cobian, Niebla de Riachuelo:  “Turbio fondeadero donde van a recalar,  barcos que en el muelle para siemre ha de quedar…Torvo cementerio de las naves que al morir seuñan sin embago que hacia el mar ha de partir…”  Chissà, forse è proprio Marcello uno di questi battelli arenati che sognano il mare e forse lo è anche l’Argentina, incagliata nelle sue contraddizioni eppure prigioniera di una speranza spesso illusoria in un domani diverso. Ma in fin dei conti non è così importante saperlo. Anche Socrate, nel Fedone, sognò di essere musico.

 

 

 

 

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