Scrapper

I colori saturi e spudoratamente innaturali del cinema di Wes Anderson marcano l’universo astioso e sconsolato di Vicky, una dodicenne che ha deciso di affrontare il lutto per la morte della madre dichiarando guerra al mondo. Gli adulti e i ragazzini del quartiere che le ruotano attorno appaiono nello schermo ristretto a 4/3 e (s)parlano di lei guardando in macchina come in un film di Woody Allen, manifestamente fasulli e sciocchi. Vicky ha fatto credere agli assistenti dei servizi sociali – evidentemente poco ferrati nella storia patria – di essere seguita dallo zio Wiston Churchill, mentre vive tutta sola nella casa della sua infanzia che riassetta con cura maniacale, preservando un ordine funereo. La ragazzina afferma risolutamente di non aver bisogno di nessuno, accetta solo l’estemporanea compagnia di Alì, un suo buffo amico, complice dei furti di bici con cui la ragazzina sbarca il lunario e protettore di una brigata di ragni impertinenti che, ad onta della pulizia sovrana, infesta la casa dell’amica. Alì ha la calma tranquilla di un saggio orientale, solo così può sopportare le intemperanze della ragazzina: Vicky è spiccia, ruvida, sfrontata e indipendente, ma la notte si rifugia in un vicoletto a guardare in loop al cellulare i video di lei che gioca con la mamma e nasconde in una stanza chiusa a chiave una strana torre di rottami, cerchioni di biciclette e ferrovecchi con cui vorrebbe scalare il cielo per raggiungere la madre. Vicky è un’attaccabrighe per necessità, che cerca faticosamente di mettere assieme i pezzi scassati della sua vita per provare a costruire qualcosa di nuovo (scrapper ha esattamente in inglese questo duplice significato), ma rimane irrimediabilmente prigioniera del passato. Poi un giorno arriva un ragazzo, Jason, che a vederlo pare poco più vecchio della ragazzina, ugualmente insopportabile e insolente, ma decisamente più immaturo, non proprio un modello per Vicky e non sembra una consolazione venire a sapere che è suo padre. Ma siamo in un film, quindi lo sviluppo è tutto trattenuto nell’incandescente inimicizia iniziale che contrappone i due. Poi Jason farà il palo per i furti di Vicky, la porterà a cercare con il metal detector pallottole smarrite in campagna, le insegnerà ad inventare storie sui passanti incrociati in stazione e si scoprirà che ciascuno ha un bisogno disperato dell’altro. E insomma, il valore del film di Charlotte Regan non sta certo nel finale rassicurante, ma nella freschezza aspra con cui la regista tratta il suo soggetto, cercando di farci cogliere, anche proprio visivamente, come può apparire il mondo ad una ragazzina scontrosa, triste e dotata di una fervida immaginazione. Probabilmente c’è qualche ingenuità travestita da vezzi citazionisti (c’è anche un po’ di Loach nei quartieri working classe dove vive Vicky), ma fra le atmosfere pop, gli incisi onirici e i siparietti iperrealisti è nascosta anche una sensibilità delicata e pudica, attenta a quelli che sono i disagi e le paure dell’adolescenza, quando spesso la cosa più ardua è, anche se non si è perso la madre, uscire dalla stanza chiusa della propria solitudine autoreferenziale per accettare di avere bisogno degli altri.

 

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