Un anno, una notte

Tutto inizia un attimo dopo. Un pulviscolo argentato sale verso l’alto galleggiando su un vento leggero e quasi palpitante in una luminescenza ovattata. Sono le particelle di cordite che sàturano l’aria, spinte verso l’alto dai vapori che emanano i cadaveri. 13 novembre 2015, un commando di tre jaadhisti armati di Kalashnikov e fucili a pompa entra nel teatro Bataclan dove si stava tenendo un concerto Heavy Metal davanti a 1300 persone ed inizia, metodicamente, a sparare sulla folla.

Il film comincia quando tutto è finito. Ramon (Nahuel Perez Biscayart) e Cecile (Noémie Merlant) sono scampati al massacro. Avvolti in una coperta spiegazzata di alluminio dorato si aggirano per una Parigi deserta, cercando di raggiungere casa. Si scambiano sguardi sperduti con altri sopravvissuti trasportati dagli autobus. Le luci dei lampioni nel buio si riflettono sulle increspature del telo producendo un effetto di rifrazione che rende quasi immateriali i loro corpi. Sono come due spettri che vagano nella notte. E degli spettri che angosceranno la vita di Cecile e Ramon ci racconta il film di Isaki Lacuesta, basato sul libro Peace, Love and Death Metal di Ramon González, un sopravvissuto della strage.

Come è possibile introiettare l’orrore e rimanere umani?Costruita su di un intreccio tortuoso di flashback e flashforward, sorretta dalla fondamentale componente del mix sonoro fra heavy metal e rumore di fondo accentuati, filmata spesso attraverso il diaframma di vetri e specchi, da prospettive defilate e inconsuete, la narrazione ci mostra le due vie divergenti, entrambe fallimentari, attraverso cui Celine e Ramon cercano di superare lo shock. Ramon si chiude nelle sue paure, evita il rapporto con gli altri, abbandona il lavoro sforzandosi di esorcizzare il terrore attraverso la sua ossessiva evocazione, tentando di fissare ogni istante, ogni particolare minuto di quell’incubo quasi a volerlo svuotare, oggettivandolo, di ogni emozione per accorgersi, invece, di affondare ogni volta in un caos concitato in cui ciascun dettaglio si confonde nell’angoscia cieca di quella notte. Celine percorre la strada opposta, non racconta a nessuno la sua esperienza, la tiene celata sia ai suoi genitori che ai suoi colleghi, prova ad immergersi nei problemi concreti del suo lavoro di assistente sociale e nell’accudimento quasi materno di Ramon, spesso travolto dalle crisi di panico. Seguendo questi percorsi, Lacuesta riesce a rendere in modo efficace la dialettica fra due inerzie contrapposte: da una parte la vita che, seppur inizialmente soffocata dall’angoscia, vuole riprendere il suo corso, rimpadronirsi della quotidianità, generare oblio, dall’altra la coazione a ripetere del ricordo che scava una voragine tetra al di sotto della apparente normalità dell’esperienza quotidiana dei due ragazzi. Le immagini di quella notte, l’appuntamento con degli amici al Bataclan, l’allegria del ritrovo, la musica e l’eccitazione e poi gli spari, la fuga, i corpi che si accalcano, le urla strozzate, la disperazione e i pianti si insinuano prima come dei brevi flash nel racconto della spenta normalità della vita di Ramon e Celine per poi assumere sempre più spazio e consistenza. Lacuesta evita la scelta facile di mostrarci in faccia l’orrore. Non vediamo mai la furia degli assassini, né i corpi dilaniati dalle pallottole: le immagini sono sempre parziali, con tagli di prospettiva obliqui, piani affollati e compressi, ma in questo modo la regia riesce a rendere con ancor maggiore incisività lo smarrimento terrorizzato di quell’esperienza, lo stesso panico senza volto di animali portati al macello. Un’esperienza vissuta – nonostante la condivisione forzata – in una radicale solitudine che, alla lunga e a dispetto dell’amore che lega i due giovani, erige un muro di incomprensione che deforma la percezione con cui l’uno vive la relazione con l’altro, come mostra una drammatica e bellissima sequenza di una lite fra Ramon e Celine, separati dal vetro smerigliato di una porta che scompone e distorce l’immagine di ciascuno. Merlant e Biscayart sono in uno stato di assoluta grazia, gran parte dell’emozione e dell’empatia che il film ci comunica nasce dall’alchimia generata dall’incontro tra i due protagonisti. I due attori riescono a farci vivere, spesso più che con le parole, attraverso i loro gesti, i loro sguardi, il cercarsi dei corpi e il loro respingersi, i sentimenti contrastanti che li stringono assieme e contemporaneamente li allontanano, rendendo palpabile l’effetto devastante che il terrore ricerca e può compiere: isolare le persone ciascuna nella propria cupa disperazione.

Eppure non è di disperazione il messaggio finale del film di Lacuesta, seppur in un epilogo «sconvolgente», nel senso letterale della parola, che rischia di incrinare il tacito patto fra regia e spettatore circa la coerenza della narrazione, il film si conclude su una prospettiva di speranza inquieta e sospesa, lasciandoci scegliere se credere che realmente Celine e Ramon, alla fine, decidano di non essere semplicemente dei sopravvissuti. In fin dei conti, come ricorda lo stesso regista in un intervista, il libro di Ramon González, da cui è tratto il film, si chiude in modo neutro e asciutto con quattro, semplici parole: “E la vita procedette”.

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