No, per favore, lasciatemelo dire, è una vita che aspetto questo momento:
“Laggiù nel Montana fra mandrie e cowboy, c’è sempre qualcuno di troppo fra noi”.
E nel caso specifico sembra essere una donna fragile, in cerca di un futuro per se e il proprio figlio, ma nulla nel film di Campion è come sembra essere. Ad esempio, dietro un paesaggio di placide colline si nasconde l’immagine di un cane feroce. Non è sufficiente vedere, è necessario saper guardare perché Campion, pur girando un western apparentemente classico nelle immagini e nel ritmo, si diverte a sovvertire il genere. E, sembra impossibile, ma è ancora possibile farlo.
Francesco Dragosei aveva riassunto con una geniale intuizione molto dell’immaginario americano: l’idea si riassumeva nell’immagine di un cerchio verso cui puntava una freccia e da cui partiva, in senso opposto, un’altra freccia. Il cerchio è un mondo protetto, chiuso in se stesso, dove regna l’ordine e la serenità, dove i conflitti sono pacificati (o covano nell’ombra): il primo insediamento dei padri pellegrini al limitare di una folta e perturbante foresta, Fort Alamo, una baleniera che solca gli oceani, due torri di vetro e acciaio che brillano nel sole di un mattino estivo. Un ranch in uno sperduto lembo del Montana. La freccia diretta verso la circonferenza rappresenta invece un alterità minacciosa e caotica che attenta la tranquillità del nido protetto: le presenze misteriose ed infide dei nativi che incombono sui primi coloni, le schiere ordinate ed ottuse del generale De Santa Anna che marciano compatte verso il forte difeso da pochi valorosi, una gigantesca balena bianca, due lucenti aerei di morte guidati da fanatici barbuti. Non è difficile riconoscere la presenza di questo topos all’interno dei film western: la diligenza o il cerchio di carri dei coloni attaccati dai pellerossa, la fattoria isolata, assalita dai bandoleros. Anche il film di Campion sembra uniformarsi a questo modello, ma la regista rimescola fin dall’inizio le carte. L’incursione dell’altro non è personificata da un nemico feroce, ma da una donna indifesa e debole. Siamo negli anni ’20 del secolo scorso, in Montana, due fratelli conducono un ranch che riposa fra pascoli e montagne ocra. La caratterizzazione dei due non potrebbe essere più marcata: quanto mite ed educato è George, che, anche a cavallo, quando conduce la mandria, indossa il vestito della messa, tanto spavaldo e arrogante Phil, un Cumberbatch macho fino alla caricatura che si intenerisce solo nel ricordo del suo mentore: Bronco Henry, l’archetipo del cavaliere fiero e solitario. Evidentemente non può scorrere buon sangue fra i due, ma vige comunque una sopportazione reciproca, tanto che i fratelli, nonostante la vastità del casone che è la loro residenza, dormono ancora assieme in una linda cameretta, presumibilmente quella della loro infanzia. È George però che, inaspettatamente, infrange l’equilibrio, chiedendo la mano di una triste e bella vedova che gestisce un ristorante nella cittadina vicina al ranch, insediandola nella casa di famiglia e suscitando così la costernazione e il ribaldo dispetto del fratello. E arriviamo quindi alla seconda freccia: quella che parte dal cerchio verso l’esterno. È la reazione violenta, ma giusta (o meglio, ideologicamente giustificata) perché provocata dall’aggressione subdola. La spinta espansiva illimitata oltre la frontiera che porterà allo sterminio dei nativi, l’invasione del Messico e l’annessione di enormi territori dal Texas alla California, la furia di Achab, la guerra infinita al terrorismo. Nel nostro caso, il rancore cieco di Phil che non accetta la decisione del fratello, disprezza la nuova venuta giudicandola una squallida avventuriera e la sottopone ad una serie di perfide angherie che dimostrano quanto il cowboy, apparentemente rude e grossolano, sia invece ricercato e perverso nella sua malvagità. Ma rispetto ai consueti stilemi, qualcosa stride nel film della Campion: la sproporzione tra il ruolo di potere di Phil e la fragilità di Rose è palese e svela la protervia della reazione, getta, se la si vuole vedere, una luce obliqua e sinistra sul topos stesso. Ne smaschera la crudeltà e l’ipocrisia.
I giochi sono destinati però a complicarsi ulteriormente. Mentre la povera Rose, una dolente Kristen Dunst, deperisce e affoga nell’alcol il suo sconforto, Phil affina la sua crudeltà e decide di non divertirsi più semplicemente dileggiando e tormentando il figlio della donna, un effemminato ragazzetto (Dio ha voluto che non fosse Timothée Chalamet) uno smarrito e ambiguo Kodi Smith-McPhee, perfetto nella parte. Il truce allevatore vuole sferrare il colpo di grazia strappando il ragazzo alla madre e tramutandolo in un rude mandriano. Ancora una volta però, bisogna andare oltre le apparenze: a ben vedere non si tratta solo dell’ennesima crudeltà. La paura di non apparire sempre e comunque virile sembra essere una insidia sotterranea che minaccia come una nuova micidiale freccia il cerchio in cui si racchiude l’io di Phil e la presenza indolente, fragile, ma inquietante di Peter è proprio questa nuova, più infida provocazione. Sono state scritte intere biblioteche su come il mondo dei cowboy sia assieme un esorcismo, ma anche una maschera dello spettro latente dell’omosessualità: Campion non fa che portare allo scoperto il non detto. Quando appare per la prima volta sullo schermo Phil è inquadrato dall’interno di un edificio, ritagliato in piena luce dentro il rettangolo buio di una finestra, un inquadratura che non può che fare tornare alla mente le scene iniziali e finali di Sentieri Selvaggi di J.Ford, con Ethan/J.Wayne incorniciato dal riquadro della porta della casa del fratello. Ma non si tratta di una semplice citazione. Il rettangolo è, assieme al cerchio, una figura della narrazione. Agli angoli di un ideale rettangolo troviamo i personaggi principali che entrano in relazioni complesse con ciascun altro. Phil non conosce che i rapporti di dominazione: burbera con il fratello, sadica con Rose. Peter sembrerebbe la preda più facile, uno sperduto coniglietto fra le fauci del cane della prateria, ma il ragazzo aveva già dimostrato una sua fredda spietatezza con quegli animaletti. E il gioco della seduzione inavvertitamente si rovescia. Il ragazzo si mostra docile, servizievole, ma non è che un modo per tendere una trappola, simile a quelle con cui Peter catturava nella prateria i veloci roditori per poi sezionarli con la stessa cura meticolosa con cui preparava i fiori di carta per addobbare i tavoli del ristorante della madre. Quando Phil racconta al ragazzo di come, tanti anni prima, Bronco Henry gli avesse salvato la vita durante una bufera invernale nel bel mezzo delle montagne, scaldandolo con il suo corpo sotto le coperte, Peter fa scivolare, senza darci peso, una domanda che è assieme una affermazione : “Nudi?”. Il cappio si è ormai inesorabilmente chiuso. Il resto, il finale tagliente come una lama affilata, è solo un preziosismo che non aggiunge nulla ad un destino già annunciato. Ci eravamo concentrati sulla circonferenza del ranch del macho Cumberbatch che aveva reagito con sproporzionata violenza contro la gentile invasione di Rose, mentre era dal legame esclusivo fra il figlio e la madre, minacciato da Phil, che si sarebbe invece scatenata la reazione più spietata.
Western gotico, quello di Campion, mescola la dolcezza sensuale del paesaggio sconfinato al rigore geometrico con cui viene svolto, nelle relazioni incrociate, lo sviluppo tragico. Il cerchio si richiude perfettamente nella sequenza finale. Quando Peter spia dalla finestra George e la madre finalmente sereni, si comprende il senso delle parole iniziali, pronunciate da un personaggio allora sconosciuto, mentre ancora sullo schermo nero scorrevano i titoli di testa. “Che uomo sarei mai se non aiutassi mia madre? Se non la salvassi?”
Solo che, se fossi in George, non dormirei sonni tranquilli. Nel salmo “Le sofferenze e la gloria del Salvatore” caro a Peter, si invoca il Signore perché ci liberi dal potere del cane. Ma è ancora lunga la lista delle presenze (spade, bufali, leoni e, chissà mai, forse anche patrigni) da cui si chiede al Salvatore di essere liberati.
