Il primo Avatar nel 2009 dava corpo, nella magia visiva del motion capture e del 3D Fusion Camera Sistem, ad una persistente ossessione di molta filosofia del ‘900, da Spengler ad Heidegger, da Adorno a Jonas, sulle potenzialità disumanizzanti della tecnica, condita con una buona dose di banalizzazione in salsa new age. Andando ancora più indietro venivano messi a confronto due approcci contrapposti dell’uomo alla natura, che risalivano alla profondità del mito: da un lato l’atteggiamento prometeico, l’hybris dello svelamento sfrontato e violento dei misteri della natura, mero oggetto utilizzabile al servizio dell’uomo – incarnato nelle armi e nelle macchine devastatrici della RDA alla ricerca dell’unobtanium nelle viscere di Pandora; dall’altro l’approccio orfico, che conserva e protegge il segreto della Grande Madre, anima cosmica che attraversa e permea il tutto, le cui infinite e molteplici forme non sono altro che la sua manifestazione vitale e visibile, concetto tradotto, per il colto e l’inclita, nella rete neuronale biologica di Pandora che relaziona fra loro tutti i viventi del pianeta.
Tutto questo armamentario ideologico da Deep Ecology – ironia inconsapevole il fatto che sia poi dispiegato dalla più impressionante macchina di tecnologia digitale che abbia solcato gli schermi – finisce sullo sfondo nel nuovo Avatar, che aumenta proporzionalmente la spettacolarizzazione delle immagini quanto riduce la problematicità dei contenuti all’eterna lotta dei buoni contro i cattivi, con l’unica complicazione, strizzando l’occhio a Darth Vader e progenie, che anche i cattivi tengono famiglia.
La famiglia è in fondo il nucleo portante di questo Avatar: la famiglia deve rimanere unita e i genitori devono proteggere i propri piccoli. Pochi e chiari concetti, che Cameron, si direbbe non particolarmente fiducioso sulle capacità di comprendonio del suo pubblico, ripete allo sfinimento, articolandoli in dialoghi, se possibile, ancora più imbarazzanti – ed è una bella lotta – di quelli del primo Avatar. In effetti ciò che dà maggiormente fastidio in questo sequel, che radicalizza i difetti del primo, non è tanto l’elementarietà dei contenuti veicolati, nessuno si aspetta da un blockbuster una chiarificazione degli snodi salienti della Critica della Ragion Pura, quanto l’enfasi della loro enunciazione oracolare, come se fossimo messi a parte dei profondi misteri dell’esistenza. Humor e autoironia, elementi ancora più preziosi dell’unobtanium, non rintracciabili su Pandora.
Allora la famiglia del già ex marine Jake Sully, ora aitante leader dei Na’vi è braccata dal ritorno dei predatori umani su Pandora. Jake ha infatti avuto dalla bella Neytiri, una nidiata di 3 marmocchi a cui si aggiunge la figlia adottiva Kiri e un ragazzino umano di nome Spider, nel ruolo del ragazzo della giungla. Una squadra di zombie Avatar, tutti soldati defunti rimpiantati nel corpo di Na’vi, guidati dal risorto colonnello Quaritch le dà la caccia. L’opportunità di muoversi senza problemi nell’atmosfera di Pandora, giustifica la reincarnazione in fattezza di giganti blu, ma sicuramente pure la necessità di poter girare la scazzottata conclusiva fra il colonnello e Jake ad armi (e statura) pari. (nessuno spoiler, anche i bambini in sala, che non erano ancora nati all’età del primo Avatar, avevano intuito subito il finale).
Per salvare i propri cari, Jake si trasferisce con la sua famiglia presso un popolo marino che vive in un lontano arcipelago sulla barriera corallina di Pandora. Senza troppa convinzione Cameron accenna ai temi delle difficoltà dell’immigrazione e dell’integrazione – si rende conto infatti anche lui della pretestuosità della situazione – per virare poi in un’interminabile paio di ore dedicate a litigi fra adolescenti, corredati di scherzetti crudeli, riappacificazioni maschie, rivalità fra fratelli e immersioni mirabolanti nelle fantastiche profondità marine di Metkayina che nella loro spettacolarità digitale esuberante vengono però presto a noia, facendo rimpiangere le immagini un po’ torbide delle riprese sottomarine di Jacques Cousteau. Se Dio vuole, Quaritch si dà una mossa, scopre il rifugio di Jake, ci piomba addosso con una baleniera corazzata rompighiaccio o qualcosa di simile e finalmente abbiamo la nostra oretta di catartico Armageddon finale, con la chicca – la cosa migliore del film, potreste entrare direttamente verso le 2 ore e un quarto di proiezione – di una rivisitazione futurista dello scontro fra Achab e Moby Dick di John Huston. C’è anche una rivisitazione dell’affondamento del Titanic, funestato però da scie di pesciolini luminosi così intelligenti che avrebbero potuto anche salvare Di Caprio dall’orrore dei ghiacci.
Che dire? Se volete drogarvi con immagini sbalorditive e rigorosamente fini a se stesse di creazioni fluttuanti e psichedeliche è il film fatto per voi, ma forse sarebbe meglio chiamarlo un gigantesco e, parere strettamente personale, mortalmente noioso parco a tema di realtà virtuale e aumentata, piuttosto che cinema.

Per quanto comprensibilissimo il punto di vista, non sono d’accordo con la conclusione cui la recensione arriva, peraltro descrivendo la trama in modo abbastanza fazioso – un po’ come 13 anni fa fecero molti detrattori del primo Avatar, paragonandolo ad una rivisitazione della Disneyana storia di Pocahontas.
Certo, i dialoghi lasciano a desiderare in più punti, così come la storia non è certo meritevole di un Oscar alla sceneggiatura e non brilla per originalità – ma non è certo per la storyline prevedibile che il pubblico si sta, ancor più che per il primo film, innamorando di Pandora.
Da sempre, dalla sua creazione, il Cinema è stato oggetto di discussione in un’eterna e mai risolta lotta tra chi parteggia per definirlo un mezzo di puro intrattenimento e chi invece ne sottolinea l’importanza nella narrazione di storie o la veicolazione di messaggi.
Se volessimo dare ragione ai primi, beh, dopo una seconda visione in HFR posso solo inchinarmi di fronte alla grandiosità della macchina capitanata da Cameron, che nella sua breve filmografia vanta le pietre miliari della tecnica cinematografica – da Terminator a Titanic – in una serie di lavori che vogliono esplorare il limite delle possibilità tecniche prima che coinvolgere in una storia; un po’ come fecero i fratelli Lumiére che sconvolsero il pubblico con un ‘banale’, non per l’epoca, arrivo alla stazione di un treno.
Se invece volessimo guardare ai messaggi veicolati… credo che possiamo concordare sul fatto che anche solo un semplice messaggio ambientalista sia ancora piuttosto lontano dall’essere compreso e immagazzinato dall’umanità, soprattutto a livello globale, per cui io, col mio modesto parere, credo che “Avatar 2” sia molto più meritevole del mio biglietto del cinema rispetto a molti altri film che arrivano nelle sale.
Concordo sicuramente con un paio dei punti del commento. In primo luogo sul fatto che la trama sia stata riportata in modo fazioso. Convertirei però l’ “abbastanza” con un “po’” fazioso, visto che, pur armandomi di tutta l’oggettività imparziale possibile, non mi pare ci troviamo davanti ad una complessità d’intreccio tipo Mulholland Drive. Concordo anche sull’abilità tecnica di Cameron, probabilmente insuperato nella capacità di rendere la magia delle possibilità tecniche della visione cinematografiche e (a volte) di saperle integrare in modo equilibrato e sapiente all’interno di sceneggiature e messe in scene solide e avvincenti (mi pare che si sia capito che, secondo me, non è il caso di questo Avatar 2).
E qui veniamo alle cose su cui, molto amichevolmente, dissento. È vero che c’è una querelle annosa fra chi sostiene che il cinema non sia che un semplice mezzo di intrattenimento e chi invece lo ritiene valido solo se assume le forme di un’arte elitaria, veicolo di contenuti tanto profondi quanto criptici e/o di una ricerca formale esasperata. Solo che accanto all’aggettivo “annosa” aggiungerei quello di “stucchevole”. La straordinaria potenza del cinema, del miglior cinema, è il fatto che riesce ad essere queste due cose assieme. Sa commuovere, esaltare, ipnotizzare platee sterminate e (non “o”) suscitare la riflessione, stimolare dubbi, farci capire qualcosa di più su noi stessi e sul mondo che ci circonda attraverso un uso raffinato, ma comunicativo del suo linguaggio specifico. Vogliamo parlare di Hitchcock, Fellini, Kubrick, Truffaut, Billy Wilder, ad esempio? Qualcosa che era capitato solo alla grande Opera fra fine ‘700 e durante il XIX^ secolo. O forse, ma qui bisognerebbe sentire di più gli esperti, al teatro elisabettiano nell’epoca d’oro di Shakespeare. Quando però mi accorgo che in un film esiste uno squilibrio stridente, con una predominanza aberrante di un aspetto su un altro, vale per Avatar 2, ma potrebbe valere anche per il caso opposto, che ne so, il Godard dagli anni ’70 in su (con qualche eccezione, ok), il risultato – si tratta ovviamente di una reazione personale che non vuole essere portata a paradigma – è una tendenza a guardare l’orologio durante la proiezione con sempre maggior frequenza, constatando spesso con desolazione che sono appena passati 5 minuti dall’ultima volta in cui l’avevo controllato.
E veniamo poi alle note dolenti, cioè al messaggio ambientalista che dovrebbe da solo, quasi fosse un etichetta di fabbrica, riscattare il film. Su questo punto proprio non sono d’accordo perché penso che, a volte, la banalizzazione sia più pericolosa del silenzio. Parto da lontano. Ti ricorderai sicuramente dello straordinario finale di Tre giorni del Condor di Sidney Pollack. Una storia che riprendeva un topos mille volte riciclato dal cinema americano. Un uomo qualunque si trovava, per un incredibile caso del destino, proiettato in un intrigo e in una tragedia enormemente più grandi di lui, schiacciato da forze impersonali e malvage che avrebbero potuto stritolare nazioni, figurarsi un umile travet. Invece, riscoprendo il coraggio, l’intraprendenza, l’astuzia, la dirittura morale (e diciamo anche il gran culo) dei primi pionieri del New England, riesce, in disperata solitudine, a smascherare le trame del potere oppressivo e a difendere e salvaguardare la purezza degli ideali repubblicani, favorendo un’immediata e irriflessa identificazione dello spettatore con il personaggio, tanto che, uscendo dal cinema, uno era portato a spiare con diffidenza gli scarponcini del primo passante, temendo di individuare un sicario della CIA deviata. Tutto bene quindi? Certo, solo che la sceneggiatura inserisce un granello di sabbia in questo ingranaggio tanto ben oliato. E siamo al finale. Joseph Turner ha smascherato tutti gli intrichi dei cattivi che sono stati debellati, ma, non contento, rivelerà tutta la storia alla stampa, scoperchiando il pentolone delle porcherie sotterranee del potere. Armato di questa superiorità morale affronta così Higgins, l’uomo della CIA che doveva farlo sparire nell’ombra. Il confronto non avrebbe potuto essere più polarizzato: da una parte Higgins (un bravissimo Cliff Robertson) azzimato, forte di una condiscendenza un po’ sprezzante, con il suo montone da 5000 $, dall’altra Turner con la zazzera bionda, gli occhialini da intellettuale e la malinconica rudezza dolce di Robert Redford con il suo logoro caban. Si capisce bene chi sono i buoni e chi sono gli infidi e con chi stiamo noi. Solo che Higgins dice qualcosa che inquieta un po’ il quadretto, chiamandoci direttamente in causa e risvegliandoci dai nostri sogni eroici. Quando Turner gli chiede, retoricamente, di domandare alla gente, ai bravi cittadini democratici della democratica America, cosa ne pensassero di tutte le sporche trame ordite dai servizi segreti per il controllo delle fonti di energia, Higgins gli risponde che non bisogna chiederglielo adesso, ma quando le merci sarebbero mancate nei supermarket, quando sarebbe finito il petrolio e si sarebbe gelati d’inverno (interessante previsione…) e quando “…milioni di persone che hanno avuto sempre tutto cominciano ad avere fame. La gente se ne frega che noi glielo chiediamo, chiede solo che provvediamo.” Ecco il granello di sabbia di cui ti parlavo. Il processo di identificazione che aveva retto per il resto del film si è inceppato. In effetti noi non siamo più Turner, ma, almeno per un attimo, scopriamo con un certo imbarazzo d’essere quelli che hanno sempre avuto tutto e ora rischiano di vedere compromesso il loro tenore di vita. Siamo degli eroi come Turner o forse abbiamo anche noi qualche – magari non scheletro – ma ossuccio nell’armadio da nascondere? E, a questo punto, viene alla luce la cattiva coscienza, può nascere qualche dubbio, può scaturire anche la scintilla del pensiero e della consapevolezza.
Torniamo ad Avatar. Ora non vorrei essere accusato nuovamente di faziosità nel dire che la contrapposizione fra bene e male nel film è schematicamente manichea. Certo c’è il naturalista nella baleniera che parteggia, sottovoce, per i grossi e pacifici cetacei, ma senza un briciolo di problematicità, giusto per rispettare i manuali di sceneggiatura che parlano della necessità di inserire, anche fra le file dei cattivi, qualche dubbioso, degno di una possibile redenzione – non a caso un “civile”, non a caso uno “scienziato”. Per il resto abbiamo da una parte la santità dei na’vi, dall’altra una banda di sadici assassini (lasciamo perdere il riscoperto sentimento di paternità del colonnello Quaritch che può essere rubricato sotto la categoria “I figgi so pezzi e core”, colonna portante del plot) che come il capitano della baleniera provano un gusto perverso nello sterminare creature indifese, tanto che la brama di profitto non appare che un pretesto per giustificare la loro ferocia. Ora qual è il retro pensiero automatico che sorge nello spettatore davanti a tanta idiota brutalità: “Io non sono mica come lui! Io amo la natura!” E, forti di questa convinzione, si esce dal cinema salendo sul proprio SUV e riprendendo serenamente la vita di prima, rassicurati dal confortante pensiero di aver fatto una cosa buona per l’ambiente andando a vedere Avatar. È la stessa cosa che accadeva con film come Schindeler’s List. Per carità meritevole, anche ben fatto, splendidamente recitato, ma che aveva anche una malcelata finalità rasserenante. Se ti ricordi tutti i nazisti ci venivano presentati come insensibili, sadici, paranoici. Certo nessuno nega che Rudolf Oss (forse la migliore interpretazione di Joseph Fiennes) lo fosse, ma questo è solo metà della verità. Se lo sterminio fu possibile era perché c’erano tanti, tantissimi inconsapevolmente volonterosi carnefici che hanno dato una mano ai pochi sadici, perché c’erano tanti uomini comuni (cfr. Christopher Browning, Uomini comuni, Einaudi)– esattamente come noi – che hanno chiuso tutti e due gli occhi, tappato le orecchie e però, meccanicamente agito. Anche lì un po’ più di problematicità forse non avrebbe guastato: il rischio è una spettacolarizzazione del male che però, paradossalmente lo nasconde, perché non ci fa capire che il male è anche, da qualche parte, dentro di noi.
Ora, l’avevo anche detto, nessuno pretende che un bluckbuster sia un trattato di etica applicata, né un sermone domenicale, ma allora, per favore, dismettiamo quel tono paternalistico da sermone domenicale, quell’impressione di essere introdotti a verità arcane e riposte. Forse un briciolo di complessità in più, ma anche, per dio, di autoironia non avrebbe certo inficiato il messaggio ambientalista, ma l’avrebbe reso più efficace e, uso una parola che non mi piace troppo, sincero. E magari avrei apprezzato – ma si tratta sempre di pareri strettamente personali, idiosincrasie se vuoi, che il cosiddetto messaggio non fosse anche mescolato ad altri messaggi subliminali a loro modo ugualmente “edificanti”. La piccola Kiri ha una crisi epilettica entrando in contatto con un collettore subacqueo dell’energia di Pandora. Entra in coma, il padre – ultimo retaggio di una formazione tecnologica brutta e cattiva, chiama i suoi vecchi compagni che vivono con gli Omaticaya della foresta per salvare la figlia. Loro arrivano – per altro rilevando in questo modo la posizione della famiglia Sully al perfido generale Quaritch – nell’isola di Metkayna dispiegano tutte le loro strumentazioni avveniristiche senza cavare un ragno da un buco. Poi ecco invece la santona Ronal che soffia, aspira, impone le mani e, come per magia, la ragazzina si risveglia miracolosamente. Ecco, magari sarà anche legittimo che Cameron strizzi l’occhio a paure e mitologie ancestrali del suo pubblico, io personalmente sono, soprattutto di questi tempi, piuttosto irritato da questi siparietti new age, probabilmente a causa della mia retriva formazione illuminista.
Poi in ultima battuta, se il metro di giudizio è il confronto fra i 9,5€ spesi per Avatar rispetto agli 8€ spesi per altre ciofeche ben peggiori, be’ non posso che concordare con te.
E ti ringrazio per la competenza e la schiettezza del tuo commento, come per la pazienza di essere arrivato fino a qui.
Grazie per l’assolutamente sapiente e direi più che esauriente risposta, e soprattutto grazie per la discussione, sempre utile soprattutto se affrontata con questa impostazione di rispetto dell’opinione (cosa che, da cinefilo e wannabe-recensore, non posso che stimare).
Sono assolutamente d’accordo nel leggere un certo buonismo, una rassicurante pacca sulla spalla, nei confronti dello spettatore medio, indubbiamente non sarà questo film a fare cambiare le abitudini poco ecologiche della gente, né in Italia né nel resto del mondo. Tuttavia, continuo a pensare – forse in maniera un po’ buonista io stesso – che ci sia del buono, non del capolavoro sia ben chiaro, ma del buono anche in film che scardinano solo l’emotività irrazionale alla visione (l’intrattenimento) “O” – in questo caso serve proprio la O – che fanno della potenza del messaggio e della riflessione profonda sul significato la propria forza.
Credo personalmente che “Avatar 2” sia un ottimo film, perché – ribadisco la soggettività del giudizio – ha non solo intrattenuto, ma lascia anche qualcosa di più profondo, dettato forse proprio da quel buonismo di superficie che analizzato a fondo può invece lasciare spazio all’introspezione. D’altronde, come tutte le forme d’arte dal teatro Greco a quello Elisabettiano, ma in buona sostanza anche in arti non performative, l’opinione e il gusto sono e rimarranno parte dei metri di giudizio.
e sull’ultima cosa che hai detto sono perfettamente d’accordo 🙂