Top Gun: Maverick

Ci sono come minimo due buoni motivi che decretano il successo planetario di Top Gun: Maverick. In primo luogo è rassicurante vedere che, in fin dei conti, niente è mutato. Nel frattempo è crollato il muro di Berlino e si sono polverizzate le torri gemelle, ha fatto tempo a collassare l’URSS e a rifondarsi la brama imperiale della Russia, la globalizzazione ha stravolto il pianeta ed è rifluita come l’onda di uno Tsunami, la rivoluzione digitale ed internet hanno aperto le porte al post-umano e alla post-verità però dalle parti di Fightertown, California, come 36 anni fa, una banda di simpatici cazzoni ribollenti di testosterone mette a repentaglio per le loro personali ripicchette giocattoli da 50 milioni di dollari al pezzo, in una inutile gara legata all’annosa questione delle “misurazioni”, futile, perché tanto si sa che vince Tom Cruise/Maverick, e comunque dopo i battibecchi si fa la pace giocando a palla sulla spiaggia in un tripudio omoerotico di muscoli bruniti e guizzanti. No, mi correggo, qualcosa di diverso c’è: in effetti allora andava di moda il beach volley, ora un più tradizionale football americano ed inoltre tre decenni di consolidamento delle quote rosa hanno aperto le porte della “muchachada” anche ad una aitante signorina (Monica Barbaro) nel pregnante ruolo di soprammobile.
E poi c’è il piacere infantile di sentirci narrare sempre la stessa storia, come quando eravamo piccoli. E come quando eravamo bambini ci appassioniamo nel momento in cui, nel racconto, possiamo riconoscere dei particolari già visti e sentiti: i rayban aviator, le t-shirt bianco immacolato, il giubbotto avirex, la kavasaki lanciata all’inseguimento del jet in decollo, le piroette acrobatiche del vecchio F14. Poi sì, a parte i dettagli, qualcosa bisogna raccontare, e allora Maverick dopo aver disintegrato nei titoli di testa una specie di astronave marziana, che immagino potesse costare come una portaerei, pilotandola oltre i suoi limiti strutturali, viene spedito per premio ad addestrare alla base di Miramar, California, un gruppo di giovani piloti per una missione suicida, risalendo con uno squadrone di F18 uno strettissimo canyon, più impervio dei cunicoli della Morte Nera in cui si infila Luke Skywalker, per piombare poi su una centrale per l’arricchimento dell’uranio dell’ennesimo stato canaglia che deve essere messo al suo posto. Qui è sufficiente centrare due volte di seguito una finestrella grande come un francobollo, incenerire la centrale, risalire in verticale una specie di Himalaya sfidando una accelerazione di gravità con effetti paragonabili a quelli di portarsi un elefante in spalla, schivare i missili terra-aria, umiliare la caccia nemica (come avrà fatto la produzione a tirar fuori 3 Sukoy-57 che nemmeno nei cieli dell’Ucraina c’è ne sono così tanti?) e riatterrare sulla portaerei di partenza. Maverick viene giudicato troppo vecchio dai suoi superiori per partecipare alla missione, dovrebbe solo preparare i baldi giovanotti, ma ovviamente neppure lo spettatore più sprovveduto può credere per un solo istante che non sarà Tom Cruise a condurre le danze. Ci sono inoltre i fantasmi del passato: il senso di colpa per la morte di Goose, il compagno di Tom Cruise nel primo Top Gun, materializzatosi nel figlio del pilota che vibra di risentimento nei confronti di Maverick che, sul prezzo, gli ha anche bloccato la carriera. Certo bisogna riconoscere che l’effetto suspense (?) sul come si risolverà questo conflitto non è il pezzo forte del film. Non trova posto invece, neppure fra le foto ricordo di Maverick, la bella Kelly McGillis, a testimoniare la spietatezza di Hollywood nei confronti delle donne che non invecchiano secondo i crismi plasticati dello star system. Se la cava meglio Ice/Van Vilmer, adesso mega-ammiraglio intergalattico, mentre Maverick per le sue marachelle è rimasto un semplice capitano di vascello . Il film gli dedica un cameo, un po’ (verrebbe da dire cinicamente) per mettere a profitto il suo cancro alla gola, un po’ (verrebbe da dire malignamente) per risaltare nel confronto l’eccezionale tenuta fisica di Maverick. Tom Cruise infatti è sempiterno, per lui quello che Günther Anders chiamava la “vergogna prometeica”, il sentimento di inadeguatezza che l’uomo prova nei confronti delle macchine iper-efficienti che ha creato, non esiste. E non perché – come vorrebbe farci credere il film – non è ancora giunto il tempo in cui i droni potranno sostituire gli umani, quanto perché Cruise/Maverick con il suo sorriso smagliante, il suo corpo scolpito perfetto, inalterabile nel tempo, ha già raggiunto la splendente e inossidabile lucentezza delle macchine che pilota, si è fuso con quelle come una sorta di centauro postmoderno. In fin dei conti il motto con cui Maverick/Yoda ammaestra i suoi discepoli è proprio questo: “Non pensare, agisci”, come per il maestro zen l’arciere deve diventare arco e freccia e bersaglio, così il pilota diventa aereo e l’aereo pilota. Ed in fondo questa massima dovrebbe valere anche per lo spettatore. “Non pensare, guarda”. Non domandarti, ad esempio, come fa Maverick a catapultarsi fuori da un missile che viaggia a mach 10, con temperature al cui confronto l’abisso dell’inferno è un congelatore, e ritrovarsi poi appena un po’ sbattuto in una tavola calda affollata. Non chiederti nulla, ma schiacciato contro la tua poltrona al cinema, pressato anche tu dalla accelerazione gravitazionale delle formidabili scene mozzafiato dei combattimenti aerei, uniformati al flusso frenetico, ma preciso come un orologio svizzero, del montaggio, agli stereotipi perfettamente oliati della sceneggiatura, alle sincopi scandite del ritmo della regia. Allora Top gun: Maverick può dare il meglio, cinema allo stato puro, quello che voi umani sullo schermo di un computer, di un tablet o peggio ancora di un telefonino non potrete mai vedere.
Per le dotte recensioni, c’è tempo, dopo.

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