C’è una capacità indiscussa del Segre regista di filmare la laguna, scivolando morbido con la macchina da presa lungo le barene, più che a seguire, a mimare l’andamento lento delle barche da pesca, registrando le variazioni di luce e cogliendone le sfumature nei mezzi toni dei tramonti e negli indistinti delle brume mattutine. C’è un grande amore e assieme un grande rispetto nel suo cinema per una Venezia minore, marginale, fatta di calli strette, rii deserti, altane e squeri semi abbandonati, interni poco illuminati e stipati di piccole cose di pessimo gusto, ma forse questo affetto, come l’empatia che prova per i vecchi mestieri ormai prossimi all’abbandono, hanno un po’ preso la mano al Segre sceneggiatore.
Pietro e Alvise, i due fratelli che si disputano la vecchia casa di famiglia alla Giudecca, l’uno per proseguire l’antica tradizione degli avi pescatori di moecche, l’altro per incentivare la gentrificazione selvaggia della città, non potrebbero essere caratterizzati in modo più manicheo. Stralunato e solitario come un personaggio di un film di Ioselliani, Pietro, ex ladruncolo da poco uscito di prigione e rigenerato grazie al ritorno alle radici; faccendiere, sbruffone, arrivista Alvise, immobiliarista di piccolo cabotaggio che cerca il salto di qualità nel mercato del turismo veneziano. L’uno radicato nella tradizione, l’altro proiettato verso una modernità fasulla, l’uno sempre in tuta da lavoro, l’altro pseudoelegante con giacca e cravatta da grandi magazzini e sneakers, l’uno incistato nella vecchia casa alla Giudecca, protetto dagli arredi desueti e dalle penombre squallide, l’altro fiero del suo appartamento funzionale e anonimo a Mestre, con ampie vetrate che si affacciano su sciagurati caseggiati. Pietro si emoziona a raccontare per filo e per segno agli amici, distratti e annoiati, i film che ha visto in TV. Alvise pensa solo “ai schei”.
Il passato, costantemente richiamato nei ricordi dei protagonisti nella nostalgia di un dialetto avvolgente, li unisce, ed è questa evocazione l’aspetto più riuscito e sincero. Lo sviluppo drammatico della narrazione, invece, li contrappone in modo sempre più marcato, rischiando di irrigidirli in ruoli stereotipati all’interno dei quali i pur bravi Pierobon e Pennacchi, sembrano, ad un certo punto, sentirsi quasi a disagio.
Quella capacità dell’occhio cinematografico di Segre di cogliere le nuances della luce, di adattare il flusso delle immagini ai ritmi pacati delle acque che scorrono, sembra mancare alla narrazione che, mano a mano che si avvicina all’epilogo, passa in secondo piano i personaggi più autentici, come una bravissima Ottavia Piccolo, per concentrarsi sulle macchiette, come il genero di Alvise, rampante uomo d’affari, per accentuare fino ai limiti del grottesco il conflitto fra passato e presente.
Una delle caratteristiche più indovinate di Pietro, la sua petulante mania di raccontare i film, avrebbe offerto a Segre, in una bella scena che vede il personaggio tornare in autobus a Venezia con un amica, un ottimo finale, sobrio e discreto come è il suo modo di mostrarci Venezia. Il regista decide invece per un finale ad effetto.
Giudicate voi quale sarebbe stata la scelta migliore.
