Cattiverie a domicilio

Nell’immaginario cinematografico poche cose sono così rassicuranti (e oleografiche) come i dignitosi interni borghesi Old England, le “nice cup of tea” e poi le casette a schiera in mattoni, vecchie signore un po’ buffe in cappellino e gli immancabili bobbies impettiti e cortesi. La buona idea di Thea Sharrock è quella di scompaginare questo mondo ordinato, gentile e placidamente noioso con l’arrivo di un diavoletto misterioso e scurrile che tramite la collaborazione efficiente e inconsapevole delle Royal Mail inonda una sonnolenta cittadina inglese di missive anonime, abnormemente volgari e blasfeme che letteralmente defecano sul buon nome e il decoro della cittadinanza tutta. Il primo e principale bersaglio di questa logorroica cascata di insolenze è Edith (Olivia Colman), una signorina bruttina, zitella, timorata di Dio e soprattutto del arcigno padre (Timothy Spall), che con una, un po’ sospetta, e rassegnata sopportazione cristiana si fa carico della prima ondata di lettere anonime, rigurgitanti oscenità e grevi allusioni alla sua presunta illibatezza. C’è anche un capo espiatorio bello e pronto, Rose (Jessie Buckley) una giovane e pugnace irlandese, da poco trasferita con la figlioletta nel tranquillo borgo, non certo un modello di buone maniere e linguaggio forbito, vicina di casa di Edith. Il fatto che Rose, di carattere sicuramente poco malleabile, avesse avuto un alterco con il padre della ragazza e la sua frequentazione del pub cittadino sono indizi più che sufficienti di colpevolezza che portano la solerte e beghina polizia locale ad incarcerare la donna tra il plauso dei buoni borghesi e l’approvazione della stampa locale che fa della bistrattata Edith una sorta di eroina della virtù infangata, suscitando un, anche qui, sospetto e malcelato orgoglio nella novella martire. Capirete che, posto in questi termini, per un pubblico rotto ai machiavelli di miss Marple – le atmosfere sono quelle -, il mistero è ben poco misterioso e comunque ci pensa una task force tutta al femminile e tutta di outsider del paesello – la porcara, l’anziana svampita, la postina vedova – guidate dalla “donna agente Gladys Moss” a risolverlo. Relegata alla preparazione della immancabile tazza di te ai suoi superiori, l’impeccabile agente aveva capito fin da subito che qualcosa non funzionava nell’inchiesta della polizia e aveva condotto con discrezione un’indagine parallela, giungendo a svelare quanto lo spettatore medio aveva capito già da un bel po’. Del resto, la stessa regia, forse non fidandosi molto di saper reggere una atmosfera di suspence, scopre già a metà film le carte per permettere a Colman di potere alternare, spesso all’interno di una stessa scena, il candore ferito della vergine cristiana, la perfidia sottile della ipocrita menzogna e il piacere ludico e trasgressivo del bambino che sciorina a cantilena “cacca e pippì, cacca e pipì!”. In effetti il film, finché regge, regge sull’interpretazioni: ottima, al solito, quella di Colman, che riesce a rendere con divertita padronanza la doppiezza frustrata e sottilmente folle di Edith, luciferina nel suo iperbolico ottuso perbenismo quella di Spall, mentre Buckley è penalizzata da una sceneggiatura manichea che, per sottolineare la totale contrapposizione con l’ambiente borghese, dipinge il suo personaggio con modi e lessico che farebbero arrossire un camallo. Ed è proprio nella figura di Rose che fin da subito si evidenzia il baco complessivo del film, che ne intaccherà poi alla lunga lo sviluppo. Tutto appare, anche quando vorrebbe essere provocatorio e eversivo, manierato e prevedibile, tanto che anche gli sguardi ora angelici, ora maligni della Colman – capito il gioco – dopo un po’ vengono a noia. Colpisce che un film che evita programmaticamente le atmosfere inquietanti e angosciose del Corvo di Clouzot, a cui potrebbe essere avvicinato per il soggetto, per scegliere un registro più apertamente satirico ed ironico, risulti suo malgrado mordace come una pubblicità di detersivo. La sua critica del patriarcato ha il vigore di un buffetto e nonostante il profluvio triviale di volgarità, il tutto appare sempre composto ed educato. Rigorosamente politcally correct, come il rispetto delle quote per la partecipazione degli attori di colore che intervengono copiosi e (datemi pure del razzista) fastidiosamente incongrui nella provincia inglese degli anni ’20.  È un po’ come se il pudore e la misura del mondo di cui sceneggiatura e regia si volevano far beffe, si fosse preso una rivincita, contaminando la natura stessa della critica, così garbata e scontata da risultare innocua.

Per non infierire rimane un filmino ben recitato e condotto con una certa cura, a tratti, per carità, se si sta al gioco, anche divertente, ma usciti, vi confesso, che si ha una gran voglia di rivedere Il senso della vita dei Monty Pithon.

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