La maman et la putain

Erano i primi anni ’70. In vacanza studio a Digione, avevo conosciuto una ragazza, Pascale, che era decisamente molto più sveglia e disinibita di me (non che poi ci volesse molto). Un pomeriggio decise che dovevamo assolutamente andare al cinema. Sosteneva che c’era un film imperdibile. Io non ne sapevo nulla, ma mi impressionò favorevolmente la durata sterminata della pellicola, 3 ore e 40 minuti: un po’ perché andava dalle parti del Dottor Zivago che era, già allora con Casablanca, il film che amavo di più, un po’ perché, se in quasi 4 ore al buio non riuscivo a baciarla, mi potevo serenamente rinchiudere in un convento benedettino per il resto dei miei giorni. Poi arrivati alla cassa non ci fecero entrare perché il film era rigorosamente vietato ai minori di 18 anni e noi allora forse non dimostravamo nemmeno i nostri 15.

Penso che se avessi visto allora La maman et la putain, oggi restaurato e portato sugli schermi dopo un oblio di mezzo secolo, Yuri Zivago e Rick Blain sarebbero scomparsi, azzerati dall’allure indolente e sfrontata di Alexandre, un Jean-Pierre Léaud dandy annoiato, logorroico e anticonformista, romantico e spudorato, fatto apposta per incantare il ragazzino che ero allora. E probabilmente non avrei capito nulla. Perché il film di Jean Eustache non è un film sulla rivolta, ma sulle macerie di un disastro.

Alexandre è un giovane spiantato e sprezzante, vive nei caffè parigini fra i Deux Magots e il Caffè de Flore ed intrattiene una relazione aperta con una donna più vecchia di lui, Marie (una bellissima Bernadette Lafont) che lo mantiene e si prende cura di lui. Le sue giornate sono orgogliosamente vuote, Alexandre irride la frenesia borghese, ma anche i mostri sacri della gauche come Sartre (“nient’altro che un ubriacone”), considera umiliante il lavoro, teorizza la pigrizia e quando chiede ai suoi amici, ugualmente sfaccendati, se sono impegnati, riceve risposte conseguenti: “As-toi quelque chose à faire cet après-midi? Rien, bien sûr”. Nell’abbondante tempo libero, insegue amori impossibili, tormentandosi per l’abbandono di donne che aveva ingannato indifferente per mesi e cerca di sedurne altre. Incontra Veronika (Françoise Lebrun), una giovane infermiera dalla vita sessuale molto disinvolta e s’innamora dell’amore che la ragazza prova per lui, imponendo un ménage a trois alla sua vecchia amante. Lo sguardo con cui Jean Eustache segue le vicende di Alexandre, prima, in apparenza, ironico e leggero, via via si fa sempre più caustico, gelido, tagliente; ricorda, con vent’anni buoni di anticipo, quello di Michel Houellebecq: si intravede lo stesso disincanto, la stessa disperazione, la stessa rigorosa denuncia morale ed assieme la struggente nostalgia per un’autenticità irrimediabilmente perduta.

L’assalto al cielo del ’68 è fallito, la presunta liberazione si è tramutata nel suo contrario, in una coazione al dispiegamento del desiderio libero e sfrenato che si tramuta in una gabbia ancora più stringente. E Alexandre non è un Che Guevara dei costumi che calpesta le convenzioni e si fa beffe del perbenismo, ma un borghese piccolo piccolo, che mima con spocchia altisonante – qui il segreto di una recitazione che può apparire fastidiosa, artefatta e tutta sopra le righe – il cinismo irriverente di un Baudelaire, ma lui, come le sue amiche, è invece rigidamente determinato da condizionamenti sociali che lo governano e la cui cogenza riaffiora come un fiume carsico, impedendo ogni possibilità di spontaneo godimento, inquinando ogni sentimento e trasformando il sesso in un atto meccanico, compulsivo, alienante. Tutto l’edonismo narcisista, egoistico e iper-individualista dei cinquanta anni successivi era, a ben vedere,  già in germe in quegli appartamenti bohemiens scanzonati, dove è  prefigurato il vuoto desolato che lo sottende. Eustache, utilizzando la grammatica visiva della nuovelle vague, il rifiuto del montaggio invisibile, la persistenza della camera fissa in sequenze infinite, il sonoro dal vivo con i rumori di fondo che coprono le conversazioni, ci restituisce un opera di crudo realismo, ma anche assieme di partecipato turbamento. Ed allo stesso modo riprende con il distacco dell’entomologo i suoi personaggi – seguendo una dinamica deterministica così scandita che potrebbe ricordare l’asetticità di Resnais in Mon oncle d’Amérique – ma ugualmente riesce, in certi momenti, ha dimostrare una straordinaria empatia nei loro confronti, come nell’interminabile monologo di Veronika che quasi una “puttana santa” confessa che scopare è merda e la cosa più bella è fare l’amore e concepire un bambino con l’uomo che si ama. E commuovendoci per la sua emozione, non possiamo assieme non sorridere amaramente dell’ingenuità della situazione paradossale. L’illusione di un nuovo mondo, il disinganno, la speranza di un’esperienza di vita diversa, finalmente solidale e libera, e la crudezza della sconfitta si ritrovano così condensate in una battuta fulminante, dispersa nel prolisso e divagante affabulare di Alexandre. “Un giorno, era il maggio ’68, ho visto una cosa molto bella, nel cuore del pomeriggio. C’era molta gente e tutti piangevano. Tutto un bar piangeva. Era molto bello. Era caduta una granata lacrimogena”.

 

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