Los años del tiburon

Ci vuole coraggio per iniziare un film dedicato alla memoria della straordinaria figura di Piazzolla con il racconto di suo figlio Daniel che ricorda quando il padre distrusse, una notte nella sua villa a Punta del Este, tutti i suoi spartiti perché sosteneva la necessità di non voltarsi indietro, di non rimanere prigionieri del passato, fosse anche il proprio. Forse per questo Daniel Rosenfeld decide di girare un documentario che spezza, anche se in modo discreto, il cliché con cui, solitamente, si ricostruisce al cinema la storia di un personaggio famoso, alternando ad immagini di repertorio, conversazioni con amici e congiunti o racconti di persone che l’hanno conosciuto e gli sono state vicine, il tutto cucito dall’immancabile voce off che salda diligentemente i diversi frammenti.
In Los años del tiburon ciò che si ascolta di più, oltre alla musica trascinante e struggente, è invece la voce di Piazzola stesso che ci parla dal passato, ma come se fosse qui, immediatamente presente: la voce raccolta in interviste o registrata in commoventi audiocassette in cui furono incisi i colloqui fra il musicista argentino e la figlia Diana ai tempi della biografia che la ragazza dedicò, alla fine degli anni ’80, al padre. In questo modo le immagini del materiale d’archivio, preziosissimo e spesso inedito, filmati d’epoca montati assieme a spezzoni sbiaditi di 8mm girati in famiglia, più che costituire lo sfondo di un affresco scontato, sono materia viva che pulsa al suono stesso della musica, la segue nel montaggio e si plasma sul suo il ritmo, e contribuisce così a suscitare quella dimensione evocativa ed insieme quella vibrante energia che sono la cifra inconfondibile del suono di Piazzolla.
Un’altra infrazione al genere è poi l’uso disinvolto dell’ellisse che Rosenfeld fa nella sua ricostruzione. Si concentra sull’infanzia newyorkese e sul rapporto decisivo con il padre; sottolinea il suo allontanamento dal tango e il suo successivo ritornarvi per reinventarlo dalle radici in seguito all’incontro con la Boulanger a Parigi; indugia sul fallimento professionale del suo secondo soggiorno a New York, che vide però la genesi dell’indimenticabile Adios nonino; si sofferma sul successo finalmente raggiunto in patria con Maria de Buenos Aires e Balada por un loco che inaugurarono il suo tormentato rapporto con Amelita Baltar, mentre glissa sugli anni della consacrazione, sorvolando senza problemi sull’ultimo legame affettivo del compositore con la sua seconda moglie Laura Escalada. Questo avviene, probabilmente, perché a Rosenfeld interessa meno ripercorrere puntualmente il tragitto della vita di Piazzolla, piuttosto che indagare sulla complessa identità di un artista che ha vissuto la contraddizione di essere sempre in opposizione con se stesso, volto costantemente a superarsi, a reinventare la sua musica, anche se poi bastano, come è stato detto a ragione, solo due note per riconoscerlo. Personaggio difficile Piazzolla, di cui Rosenfeld non cerca l’agiografia, facendone emergere il carattere spigoloso, aspro, narcisista, dominato da una passione travolgente per la sua musica che lo porta anche a sacrificare la famiglia, ad entrare in conflitto con la figlia, che gli rimprovera le connivenze con il regime dei colonnelli, e con il figlio di cui non accetta le critiche. Bastano cinque parole di Daniel, lí dove fanno più male: “Stai facendo un passo indietro”, pronunciate al tempo in cui Piazzolla scioglieva il rivoluzionario Octeto Eletronico (era il 1978) per ritornare alla più tradizionale formazione del quintetto, per provocare una frattura decennale fra padre e figlio, a stento ricomposta solo negli ultimi anni della vita del compositore. E infatti, assieme alla voce di Piazzolla, al centro del lavoro di Rosenfeld, ci sono anche i silenzi del figlio, il suo bel volto assorto e malinconico ripreso in contrappunto con il vulcanico affabulare del padre. Silenzi che molto più di tante parole ci parlano di un assenza, che non è solo quella della morte del genitore.
Il titolo, Los años del tiburòn, è spiegato da un inciso di Piazzolla all’inizio del film quando il musicista argentino, appassionato pescatore, paragona la pesca allo squalo alla sua relazione con la musica: si tratta dello stesso rapporto agonico che richiede forza, vigore, ma anche pazienza e coraggio. Non può non venire in mente, però, anche l’assonanza con il bellissimo brano che Piazzolla suonò in una celeberrima registrazione con Gerry Mulligan, di cui, non a caso, una clip è ripresa nel film di Rosenfeld: Años de soledad. Il prezzo di questa potenza creativa, di questa necessità di tagliare i ponti e reinventarsi sempre di nuovo è stata forse proprio ciò che, a sentire il figlio Daniel, Piazzolla temeva di più: la solitudine. L’incomprensione per la sua musica innovativa, l’attrito con i figli, la sofferta perdita di Amelita, il suo grande amore. La solitudine, l’unica cosa, ricorda Daniel in una intervista rilasciata a pochi anni dalla morte del padre, contro cui Astor non riusciva a lottare.

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