C’è una tecnica particolare, si chiama Kintsugi, di riparazione degli oggetti, come piatti o tazze di ceramica andate in frantumi, tipica della cultura materiale giapponese. Gli artigiani che si occupano di ricomporre questi oggetti non cercano di rimuovere le tracce delle fratture, sforzandosi di riportare il vasellame alla sua antica integrità, ma al contrario sottolineano le crepe e le fessure usando resina laccata e polvere d’oro come se dal danno ormai irreversibile si potessero trarre nuove occasioni di bellezza.
Taeko è una giovane donna che vive con il marito Jiro e il piccolo Keita, un bambino geniale e buffo, campione di Othello, avuto da una precedente relazione. Koji Fukada ci fa entrare nell’angusto, ma luminoso appartamento degli sposi, tratteggia garbato momenti di serena quotidianità, ma nello stesso tempo accenna anche a frizioni latenti: una intimità privilegiata che lega la madre e il figlio, tendendo ad escludere il patrigno; la sopportazione ipocrita dei genitori di Jiro che avrebbero preferito un’altra compagna per il figlio, non gravata da una precedente relazione.
Poi una inquadratura di una sobrietà agghiacciante: mentre nell’appartamento dei giovani sposi si festeggia con un karaoke improvvisato il compleanno del suocero, la macchina da presa fissa per un tempo che sembra infinito una vasca inopportunamente ancora piena d’acqua sul cui bordo il bambino gioca facendo volare un biplano giocattolo.
Dramma composto, ma non per questo meno lacerante, sull’elaborazione del lutto, sul dolore e sul senso di colpa, il film di Fukada ci mostra asciutto la spietata moderazione con cui i rituali sociali cercano di circoscrivere e diluire la sofferenza senza nome per la perdita di un figlio, il senso di paralisi, di tempo immobile che si spalanca per chi rimane. Il freddo interrogatorio, campo controcampo, dei genitori dopo la disgrazia, la madre di Jiro che non riesce ad abbracciare la nuora, la scacchiera dell’ultima partita di Othello di Keita con la madre che rimane intoccata, le pedine fissate sull’ultima mossa mai giocata, nell’appartamento dei coniugi. E proprio per questo è ancora più dirompente – quasi come un terremoto – l’arrivo di Park, il padre naturale di Keita che irrompe con un contrasto anche cromatico – il giallo carico della sua camicia contro il nero e bianco funebre – nella camera ardente del figlio. Ma ancora più sconvolgente, socialmente scandaloso, è il senso di responsabilità che la donna comincerà a provare per l’ex compagno, un emigrato coreano sordomuto, sbandato e senza tetto, che aveva, senza motivo, anni prima abbandonato la famiglia; quasi che il rimorso per la morte del figlio possa essere compensato dalla cura per il padre. E come l’appartamento di Jiro e Taeko sembrava compresso nella placida vita familiare ed ora, abbandonato dalla vitalità del piccolo Keita, si dilata nei chiari e scuri che scavano negli spazi vuoti, così la distanza fra i personaggi si estende, allontanando progressivamente Taeko e Jiro, senza che però questo possa provocare una reale avvicinamento – secondo una simmetria rohmeriana – fra la donna e l’ex compagno e Jiro ed una vecchia fiamma che l’uomo rincontra.
Fukada in questo gioco di incontri ritrovati e falliti ha una capacità rara di far vibrare i sentimenti, seguendo i tempi di una partitura musicale tutta sui toni del minore, grazie ad una regia essenziale che centellina con parsimonia i movimenti di macchina e si affida ad inquadrature severe e purissime, un po’ come faceva il cinema di Ozu, dove il tumulto interiore dell’animo può essere condensato in un gesto trattenuto o nel mancato incrocio di due sguardi. E pone questo rigore formale al servizio di uno sguardo comprensivo, non giudicante, accogliente nei confronti della fragilità umana. Ciascun personaggio sconta, assieme alla propria solitudine, una sua peculiare debolezza, un’incapacità a far fronte a ciò che più grande di lui lo sovrasta. Ma è proprio la consapevolezza di questa inettitudine, che può, se non colmare completamente la distanza che ci separa dall’altro, farci accettare la sua inadeguatezza, creare la possibilità per un cammino comune, come nell’ultima, struggente inquadratura del film. La consapevolezza che il dolore non può essere rimosso, ma neppure vi ci si può perdere, solitari, dentro: anche il dolore va attraversato. Ne rimangono le tracce, come venature indelebili di fratture che non potranno mai ricomporsi, ma forse offrire, nello stemperarsi della sofferenza in una tristezza pacata, nuove opportunità di poter amare la vita.
