Retour à Séoul

Freddie è nata in Corea, ma da piccolissima è stata adottata da una coppia di francesi, trasferitasi a Parigi è vissuta apparentemente serena, del tutto indifferente rispetto alle sue radici. Questo lo intuiamo soltanto perché all’inizio del film troviamo già Freddie in Corea dove, forse per caso, forse per progetto premeditato, la sceneggiatura rimane volutamente reticente su questo passaggio, si mette alla ricerca dei suoi genitori biologici. Lo sviluppo della vicenda sembra così incanalarsi lungo i binari consolidati dell’incontro con le proprie origini, ma sceneggiatura e regia faranno di tutto per sabotare questo collaudato modello di narrazione. Freddie non corrisponde certo all’immagine della persona incerta e dubbiosa circa il proprio io, la ragazza è disinibita, sfrontata, imprevedibile, un ciclone in quello che appare un po’ il compassato mondo delle relazioni sociali in Corea. Sicura di sé fino a sembrare anaffettiva, reagisce in modo infastidito alle piagnucolose profferte d’affetto del padre ritrovato che, schiacciato dai sensi di colpa, vorrebbe riallacciare un legame con lei, mentre la regia, giocando sugli equivoci delle traduzioni incrociate fra coreano, francese, inglese (un gran peccato il doppiaggio che fa in parte perdere questa confusione), colora di un tono di freddo humor dissacrante la scena madre dell’incontro. Eppure con un salto di due anni ritroviamo Freddie, che avevamo lasciato ragazzina in jeans mentre si prendeva gioco con le sue reticenze durante una videochiamata dalla Corea dei suoi genitori adottivi, trasformata in una dark lady che sembra uscita dai fondali noir-futuristi di Blade Runner, al centro di un universo notturno e trasgressivo che ruota attorno alla sua personalità assieme fredda e tormentata, insensibile e sconsolata. Ancora, non si sa bene perché, alla ricerca della madre che si era fin dall’inizio negata al riconoscimento della figlia. Il film procede così per iati temporali che sottolineano le inaspettate metamorfosi di Freddie. La distanza del tempo trascorso è indicata solo da delle didascalie che segnano il passare degli anni e nulla ci dicono sul percorso di crescita della ragazza che ci appare, ogni volta diversa, nei ruoli, nelle relazioni, nel look ed ogni volta identica a se nella rabbia appena repressa, nella determinazione che la pervade, nella tristezza e nella solitudine che nasconde. Chou tiene unite queste sezioni collegandole nel quadro di un estetica composita, che alterna momenti pop, accesi da colori squillanti, ad interni cupi, a cieli grigi e piovosi, affascinato dal volto della sua eroina, una sorprendente Park Ji-min, al suo primo ruolo, che può apparire nello spazio della stessa inquadratura quasi inespressivo, una maschera immobile da teatro Nō, e poi, un attimo dopo, illuminarsi di energia o seduzione, come nelle scene travolgenti della danza in cui Freddie è coinvolta. La decisione della regia di procedere per marcate cesure è un rischio che Chou si prende, comporta infatti il pericolo, non sempre sventato, di sovraccaricare il non detto e scivolare in una retorica del mistero che potrebbe semplicemente coprire degli impacci di sceneggiatura. Ma non si tratta però soltanto di un espediente narrativo, quella di Chou è più profondamente una scelta stilistica, che assegna allo sviluppo della storia un ritmo sincopato, apparentemente dissonante, dove l’armonia dell’assieme deve essere ricercata in una trama di simmetrie non appariscenti che innervano però le dinamiche dell’azione. E anche nel ruolo della musica – soprattutto, ma non solo diegetica – che riveste una funzione importante nella pellicola del regista franco-cambogiano, non solo come sottofondo persistente, ma anche come metafora di una capacità di cogliere e interpretare le situazioni. Freddie confessa alla sua nuova amica coreana all’inizio del film che la lettura a prima vista di un brano musicale è la capacità di suonare una partitura senza averla studiata, valutando con un preciso colpo d’occhio i pericoli e gli azzardi che il pentagramma riserva e poi gettandosi d’istinto a suonare. Un modo di cogliere i segnali che emette l’ambiente circostante, riconoscerli, afferrarli e farli propri. Il modo in cui, di fatto, vive le sue diverse vite Freddie. Proprio per questo, quello che appare come il percorso di avvicinamento di Freddie verso le sue radici, verso l’incontro con la madre, che Chou filmerà rallentando fino quasi a sospendere il ritmo del film, con pudore e riserbo attraverso un uso calibrato del fuoricampo, si rivela essere più che un cammino di avvicinamento un movimento di dilazione. Il costante posticipare l’incontro di Freddie con se stessa. Jean Améry ci spiegava che “nella vita di ogni essere umano esiste un punto del tempo, o se vogliamo usare la più precisa terminologia matematica, l’intorno di un punto, in cui egli scopre di essere solo ciò che è”. Ora il viaggio ellittico di Freddie lungo tutto il film di Davy Chou è il tentativo sospeso per differire questo momento e forse, se si vuole provare ad interpretare l’enigmatico finale che chiude a specchio il film, di raggiungerlo proprio nel momento in cui lo manca.

 

 

 

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