Un bugia per due

Una ventina di anni fa in una esilarante commedia di Francis Veber, Le Placard, un formidabile Daniel Auteuil, nella parte di un oscuro impiegato sull’orlo del licenziamento, si fingeva gay per mantenere il posto di lavoro, facendo leva sulle ipocrisie del politically correct. Oggi, sulla stessa scia, Rudy Milstein esplora le imbarazzate reazioni e l’impacciata compassione suscitate, in un ambiente di lavoro per sua natura tanto competitivo da risultare feroce, dall’annuncio di una malattia mortale. Louis Ifergan (un simpatico e opportunamente imbranato Vincent Dedienne) è un giovane avvocato in un grande studio parigino. Timido e insicuro Louis è lasciato ai margini dai suoi colleghi, relegato a compiti appena più gratificanti della preparazione del caffè ai suoi superiori fino a che, a causa di una diagnosi farlocca di un dottore che sembra essersi formato, oltre che sui trattati di patologia medica, sui testi di Sade, non rivela d’essere malato di cancro. Immediatamente l’atteggiamento dei soci dello studio muta, assieme ad una pelosa benevolenza comprensiva, nasce una nuova considerazione per il ragazzo. La leader dell’ufficio ne scopre i meriti e lo vuole al suo fianco in una complicata causa che vede lo studio difendere una losca azienda di pesticidi dalle accuse di aver provocato il diffondersi del cancro fra i suoi utenti e, sul prezzo, se ne invaghisce, mentre il ragazzo dovrà affrontare la ruvida opposizione di un attivista caparbia che non annovera fra le sue doti cortesia e misura. Finché rimane sui binari sperimentati della commedia degli equivoci, il film di Milstein si rivela divertente, caustico, ben sostenuto nel ritmo, giocato su situazioni, magari un po’ scontate, ma ben condotte e supportate da una sceneggiatura brillante che fa leva su interpretazioni sicuramente riuscite: oltre alla goffa ingenuità di Dedienne, al controllato calcolo delle emozioni di Clémence Poésy, nella parte dell’avvocato senior del gruppo, fa da contraltare la sboccata esuberanza di Géraldine Nakache, la combattiva militante, mentre lo stesso Rudy Milstein si ritaglia la parte spassosa di un vicino bizzarro e anaffettivo di Louis che, con l’aiuto del giovane, cerca di rimparare l’arte del sorriso ottenendo come risultato dei ghigni inquietanti. Solo che il regista, preso dall’entusiasmo, non rimane prudentemente nei limiti della messa alla berlina della falsa coscienza di un moralismo conformista, come aveva fatto Veber nel suo antecedente, e vuole mettere troppa carne al fuoco, complicando la commedia di risvolti drammatici e di denuncia sociale. Non riuscendo però a padroneggiare la virata dalle parti di Erin Brockovich, la narrazione comincia, sul finale, a sbandare pericolosamente. Peggiora le cose il ricorso disinvolto al sentimentalismo attraverso cui Milstein cerca di stabilizzare la vicenda tanto che, quello che avrebbe dovuto essere il vertice assieme drammatico e comico del film, l’arringa finale dell’avvocato Ifergan, che dovrebbe giustificare per antifrasi il titolo francese della pellicola (Je ne suis pas un hero), imbarazza quanto le gaffe iniziali di Louis. Peccato che non fossero queste le intenzioni della sceneggiatura. Ma se non si è troppo esigenti e si sorvola sullo sdolcinato finale, a mezza via fra deriva onirica e spot pubblicitario, per una buona oretta ci si diverte di gusto, e in questi tristi tempi, è già abbastanza.

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