Si potrebbe liquidare Un uomo felice come una banale pochade che – sulla scorta di film di grande successo come Non sposate le mie figlie – cerca la risata facile prendendo un tema di attualità (lì era la società multi-etnica, qui le molteplici modalità di identità/disidentità di genere), ci ricama sopra un po’ di situazioni paradossali, giocando sull’inversione dei ruoli e, in omaggio ad uno spirito progressista di facciata, mette alla berlina la mentalità gretta e ottusa di un protagonista che non sa stare al passo con i tempi. Il tutto condito dalle smorfie isteriche di Fabrice Lucchini, sempre sopra le righe, come lo vuole il copione.
Ma forse la situazione è un po’ più complessa e ambigua e magari, a ben vedere, il tema dell’identità di genere è solo un pretesto per parlare d’altro.
E allora: Jean è un sindaco ultraconservatore di un piccolo centro di provincia francese che sta affrontando con notevoli possibilità di successo l’ennesima campagna elettorale. Gira per i mercati e le vie della sua cittadina proponendosi come baluardo dei valori tradizionali e solleticando con pesanti allusioni le simpatie omofobe e cripto-razziste del suo elettorato. Purtroppo, per la sua immagine, una bomba ad orologeria sta per scoppiargli in casa: la moglie, madre dei suoi tre figli, ha scoperto la sua reale identità di genere e, stanca di una vita di dissimulazione, dichiara di voler intraprendere un percorso di transizione verso il suo vero io maschile. Ovviamente, un avvio tutto in salita per la campagna elettorale del marito.
È abbastanza scontato, a questo punto, il balletto di malintesi, imbarazzi, sotterfugi su cui si regge la trama, condotta con mestiere da Tristan Séguéla, gioco degli equivoci che il regista riesce a rendere con discreta efficacia e buon ritmo, ironizzando bonariamente sulla progressione di incredulità, rabbia, depressione che si impadronisce del costernato sindaco. Ma è proprio qui che appare in primo piano l’ambiguità del film, che si presenta, prima facie, come una satira dell’atteggiamento retrivo del protagonista, ma, d’altra parte, proprio per prendersi gioco del sindaco reazionario, deve dargli voce, sdoganando i suoi commenti, altrimenti irricevibili da un compassato pubblico progressista, sulle nuove peripezie dell’identità sessuale. E come sempre in questi casi, non si sa bene se il comico nasca dal sentimento di superiorità che avvertiamo nei confronti del cavernicolo che si scaglia goffamente contro i nuovi tempi illuminati, e quindi si rida di lui e della sua inadeguatezza, ovvero se – come suggerirebbe Freud – il riso si generi anche da uno scarico di tensione, da un alleggerimento che proviamo proprio grazie alle enormità che il sindaco snocciola a piè sospinto. Reggere il confronto con un mondo sempre più complesso e attraversato da inquietanti flussi contraddittori di trasformazione richiede un dispendio di energia psichica notevole; essere sempre sul pezzo, modellarsi sulle metamorfosi repentine che alterano schemi di riferimento e quadri valoriali consolidati è impegnativo, anche perché, non ci è neppure concesso di mostrare segni di affaticamento, che denuncerebbero indirettamente il nostro non essere all’altezza dei tempi. Ecco così che assieme al senso di superiorità si manifesta anche una più sotterranea condivisione: non ridiamo solo di Jean, ma anche con lui, che esprime, senza remore, pure il nostro inconfessabile sentimento di non adeguatezza, e di ribellione, davanti ad un mondo che ci è sempre più difficile comprendere (e ovviamente non solo per ciò che riguarda il problema dell’identità di genere). Abdichiamo per un attimo alla compunta e seriosa naturalezza con cui sembriamo accettare serenamente le fibrillazioni di una realtà inafferrabile nella sua mutevolezza e la liberazione dell’energia psichica, impiegata per mantenere la nostra flemmatica postura, si trasforma in riso.
Solo che per Jean la situazione è più complicata perché per lui non si tratta di un attimo, ma della sua vita. Così Jean Amery: “Come accade al corpo che invecchiando diviene sempre più massa e meno energia, così accade con lo spirito inteso come ricettacolo culturale: lento e pesante per propria natura per il tempo trascorso, esso diviene preda di un’inerzia crescente, non è più in grado di muoversi quando è sollecitato da nuovi segni”. C’è un’altra transizione che traccia il film di Séguéla, meno appariscente ma più universale di quella verso un nuovo genere, ed è la percezione prima stupita, poi sofferente e rassegnata di Jean, della vecchiaia che inesorabilmente avanza. Invecchiare può anche essere un processo graduale, ma la coscienza soggettiva di questa trasformazione è spesso puntuale e traumatica. Si manifesta quando un dolore sordo e persistente ci rende consapevoli dell’ estraneità del nostro corpo, non più, come quando eravamo giovani, mezzo docile e irriflesso per i nostri scopi, ma ostacolo riottoso che ci limita nelle attività quotidiane più banali. Oppure si mostra, come accade per Jean, quando quel mondo in cui siamo immersi, orizzonte da sempre familiare e confortevole, ci appare sempre di più come un universo enigmatico ed estraneo, nei confronti di cui vecchi vocabolari e collaudati paradigmi interpretativi, più che inadeguati si rivelano risibili. Jean non capisce più il mondo, perché, nonostante la sua ostinazione, si accorge che quel mondo, come la sua mogliettina affettuosa e sottomessa, non esiste più. E la sua reazione sconfortata oscilla fra la rivolta stizzita della prima parte e la rassegnazione sconfitta delle ultime scene, quando in un variopinto carnevale di travestimenti, Jean accetta, con l’ultimo residuo di dignità disfatta, di vestire anche lui la maschera dei tempi nuovi. E l’ennesimo sorriso si smorza nella riflessione dell’umorismo perché Jean ci appare molto più patetico e ridicolo ora, che si è uniformato allo Zeitgeist dominante, di quanto lo era prima quando, impotente, lo combatteva.
