Una videocamera riprende un giovane uomo. Fuori campo, dietro l’obiettivo, la voce della figlia lo incalza, chiedendogli se a 11 anni fosse capace di immaginarsi come sarebbe stato da grande. Lui nasconde l’imbarazzo con un sorriso spavaldo. La macchina balla, riprende l’ambiente circostante – un’ordinaria camera d’albergo in un ordinario luogo di vacanza – come accade nei video amatoriali che cercano goffamente di mimare una ripresa documentaria e fissare l’istante, poi l’immagine è messa in pausa e, nella parte più scura di quello che comprendiamo essere uno schermo, vediamo riflesso il volto di una donna, in silenzio. Forse sta cercando qualcosa in quelle riprese, come nei suoi ricordi; sta evocando probabilmente una perdita, un assenza che giungendo da lontano riempie ancora la sua vita.
E queste immagini già indicano il registro stilistico a cui si uniforma il lavoro di Charlotte Wells: senza apparente soluzione di continuità, la combinazioni di filmati digitali, rozzi, ingenui, ridondanti che virano nelle riprese cinematografiche, le quali mantengono però, nella loro ricercatezza raffinata, la stessa immediatezza, la stessa freschezza, la stessa apparente innocenza. Ed è come se quel flusso dei ricordi, in cui comprendiamo si immerge la protagonista da grande, cercando di sorprendere degli indizi di qualcosa che ancora silenzioso si nasconde, fosse irrimediabilmente contaminato da uno sguardo disincantato, dalla nostalgia che abita un presente di assenza.
Non accade nulla di particolare: una vacanza in un residence un po’ cheap in Turchia, Calum e Sophie, un giovane padre impacciato, un po’ a disagio nel suo ruolo a cui si comprende non è abituato e la figlia undicenne, non più bambina, non ancora adolescente, che vive con la madre e probabilmente tanto si aspetta da questa vacanza con il papà lontano. Imperativo al divertimento, ma anche tempi vuoti di ozio annoiato: i bagni in piscina, le escursioni culturali e le immersioni, le prime frequentazioni con i ragazzi più grandi, il primo bacio. Tutto un campionario che potrebbe ricordare un caramelloso film adolescenziale, ma sempre attraversato da un turbamento e da una malinconia inquieta, che è difficile capire se è quella proiettata dal presente sul passato, ovvero dal passato si leva impalpabile, indecifrabile. E ancora più profonda un’angoscia celata, come un sentimento ansioso di attesa di qualcosa che deve prima o poi accadere per infrangere l’apparente serenità, la cameratesca e un po’ fasulla complicità fra il padre e la figlia. E invece se qualcosa succede è ai margini ed emerge in modo discreto ed ellittico, solo attraverso accenni e reticenze. Come è proprio del modo di filmare di Wells, dove le cose più importanti sembrano accadere fuori campo o ai limiti dell’inquadratura, mentre i protagonisti spesso appaiano pudicamente inquadrati attraverso il riflesso di specchi, schermi, finestre. Come se fosse ormai impossibile risalire a quell’istante, come se tutto, nella sua ingannevole evidenza, potesse essere evocato solo alterato e contaminato. Anche perché fra padre e figlia, nei loro vagabondare periferici, con l’immagine spesso invasa da una luce che ricorda Antonioni o risucchiata nei chiari e scuri e nei riflessi notturni sull’acqua, si gioca un incontro mancato, lo struggimento di una vicinanza affettuosa che non riesce mai a superare però uno scarto e le buffe riprese sbilenche di Sophie, che simulano nel loro piglio documentario un intimità solo vagheggiata, non fanno che sottolineare questa distanza. Stupendi Paul Mescal e la giovanissima Frankie Corio nei loro ruoli. Lei più grande, più saggia, più triste di quanto le sue moine, i suoi sberleffi, le sue timidezze potrebbero far pensare, lui più tormentato e amaro della bonarietà sbruffona che esibisce. Tutto c’è, ed è di fronte a noi, con l’evidenza fallace dei ricordi, con l’oggettività accidentale di una ripresa in presa diretta. Tutto rimane sospeso, sembra promettere un senso, una risposta ad un’angoscia lontana eppure presente, ma poi si ritrae, come per il giovane Marcel sfugge irrimediabilmente il messaggio che nascondevano i tre alberi di Hudimensil. Una promessa non mantenuta di felicità. Scompare e si scompone, confondendosi nelle immagini frammentate e contrastate di un incubo o di un flashforward enigmatico che è forse l’unico momento del film un po’ artefatto, un po’ superfluo. Non rimane che una agrodolce consapevolezza. Poche cose sono ingannevoli come i ricordi, ma di questi siamo fatti.
