All’inizio c’è una autopsia, ripresa con dovizia di particolari. La pratica un medico spiritato, il dottor Burt Berendsen (Christian Bale), che, per professione e diletto, cerca di restituire dei lineamenti vagamente umani ai volti devastati – come il suo – dei reduci della prima guerra mondiale. L’ha commissionata il miglior amico del dottore, l’avvocato Harold Woodman (John David Washington), assunto dalla figlia del morto. Mistero e concitazione: i due sono poi repentinamente accusati dell’assassino di una donna dall’omicida della stessa e scappano inseguiti dalla folla. A questo punto l’immancabile voce fuori campo interviene dicendoci che per capire come sono andate veramente le cose bisogna tornare nella foresta dell’Argonne nel ’17, quando Burt e Harold si erano conosciuti nel reggimento del colonnello squartato sul tavolo del nosocomio pochi minuti prima. Gravemente feriti erano stati amorevolmente curati da un infermiera, Valerie Voze (Margot Robbie) – non illudetevi, non è la donna che compare nella prima parte, ma un’altra, mai vista prima – che raccoglieva meticolosamente le schegge degli shrapnel estratti dai corpi dei feriti per comporre poi dei ready-made dadaisti che affollavano il suo loft ad Amsterdam, dove i tre si rifugiano dopo la guerra in una bohème scompaginata a mezza strada fra Jules et Jim e Band à part per darsi ai bagordi, inventandosi canzoni e balli surrealisti.
Come dite? Ad onta delle promesse della voce fuori campo non c’avete capito nulla? Tutto è in ordine. Siamo nel mondo ebbro ed eccessivo di David O. Russel in una nuova esplorazione del caos, da cui il regista cerca di distillare, sotto traccia, ordini divergenti e stravaganti. A volte, come in American Hustle, l’operazione riesce, a volte, ed è il caso di I Heart Huckabees, decisamente meno. Qui i tasselli del puzzle ci sarebbero tutti: l’atmosfera torbida di un noir dall’ambientazione curatissima, avvolta in una luce vischiosa e seppiata, il giusto equilibrio fra un Christian Bale esagitato e un John David Washington, per converso, immoto nell’espressione, e poi intrighi misteriosi e goffi complotti che insidiano la democrazia americana, donne fatali e loschi figuri, wasp razzisti e nazisti del Minnesota, milionari ambigui e spie eccentriche, spezzoni di storia americana tra grande depressione e new deal e inquietanti ipotesi su realtà storiche parallele senza contare il pezzo da novanta di Robert de Niro nella parte di un integerrimo generale che guida la protesta dei reduci di guerra. Il tutto inondato dai fiumi di parole di una sceneggiatura pletorica, a stento compressi dentro le sequenze che animano, con una abbondanza di inquadrature dal basso verso l’alto, utilizzate per accentuare i tratti espressionistici dei volti, che però, alla lunga, danno allo spettatore la fastidiosa impressione di essere un nano fra i giganti. Ma se le singole tessere del mosaico brillano ciascuna di luce propria, la combinazione delle parti rischia di produrre un effetto cacofonico che Russel cerca di coprire (o forse accentuare?) inserendo le diverse componenti in una sorta di acceleratore di particelle che imprime un ritmo via, via sempre più vorticoso alla vicenda. La velocità contribuisce forse ad occultare qualche buco di sceneggiatura, ma, combinata con i grovigli della trama e la logorrea dei personaggi, produce anche un effetto di saturazione che si concretizza, davanti all’ennesima ripetizione della gag dell’occhio di vetro perso da Burt, in qualche composto sbadiglio, mentre lo sguardo, superata a fatica la boa delle due ore, con sempre maggior apprensione scruta l’orologio.
Regia: David O. Russel
Sceneggiatura: D.O.Russel
Fotografia: E.Lubezki
Montaggio: J.Cassidy
Anno 2022
