Another end

Una città grigia di grattacieli freddi e asettici, strade deserte e periferie desolate sono il correlativo oggettivo della tristezza cupa di Sal che non riesce a superare il trauma della morte della moglie Zoe in un incidente d’auto di cui lui stesso è il responsabile. Come per il primo film di Messina, L’Attesa, l’impossibile elaborazione del lutto è il tema attorno a cui ruota la narrazione, solo che qui il regista, complice l’ambientazione futuribile, cerca di compiere il salto di qualità verso quegli interrogativi metafisici che hanno inquietato da sempre l’umanità. Ernest Cassirer spiegava che la credenza della vita dopo la morte è la convinzione più radicata e inestirpabile dell’umanità perché basata su una evidenza inoppugnabile: come poter credere nella cancellazione nel nulla di una persona cara se lei vive ancora dentro di noi, se è una presenza vivida e costante nei nostri ricordi e nei nostri sogni, se la ritroviamo nelle nostre sensazioni corporee intuendo il suo odore nel profumo di un fiore o il contatto della sua pelle nello spazio vuoto di un letto? Nel futuro prossimo venturo di Another End la tecnologia dovrebbe venire in aiuto. Da quello che pare di capire da una sceneggiatura piuttosto reticente, la coscienza delle persone (Tutte? Perché è raccolta? In che modo? Boh?) è conservata in un enorme database e può essere trasferita nel corpo di una sorta di donatore – nel lessico burocratico-contrattualista utilizzato dal film si chiama il “locatore” – che accetta, presumibilmente per denaro, di offrire per un arco di tempo limitato le sue spoglie mortali all’esperimento. Il caro estinto, deceduto in circostanze traumatiche e improvvise, torna così in vita sotto nuove fattezze, ma con tutto il suo mondo interiore, per offrire ai propri congiunti la possibilità di dirgli addio, in modo pacato e consapevole. Ebe, la sorella di Sal che lavora all’interno di questo apparato di resurrezione temporanea, convince il fratello a quest’ultimo incontro per riuscire a superare definitivamente il dolore del distacco.

Ora, sorvolando sull’agghiacciante orizzonte distopico di un mondo in cui la più intima e personale essenza di ciascuno è patrimonio comune, che si visita distrattamente nei musei, su cui la sceneggiatura non si pone, e non ci pone, il minimo interrogativo, comunque non ci siamo. Capisco che Messina e gli sceneggiatori possono essere stati influenzati dalle suggestioni delle antiche credenze secondo cui, se non fosse stata data onesta sepoltura ai defunti, le loro anime avrebbero vagato inquiete, gravando sulla coscienza dei vivi, ma non si capisce perché una persona, affranta dalla sofferenza per la perdita di un proprio caro, potrebbe essere rinfrancata  dalla ricomparsa temporanea del defunto, a scadenza prestabilita come una confezione di mozzarella, e non invece devastata da una doppia e irrimediabile perdita. Senza contare poi lo strampalato paradosso di fondo, su cui grava una sorta di pregiudiziale spiritualista, che il defunto ricompare con tutti i suoi ricordi e il suo mondo interiore, la sua anima si potrebbe dire, ma in un altro corpo, come se l’individuo non fosse una unità psicofisica inscindibile, come se i nostri ricordi e il nostro amore per l’altro fosse solo una questione “mentale”, del tutto indifferente rispetto ad una intimità ed una memoria direttamente corporea. E ancora una volta non si capisce perché questa situazione dovrebbe apparire confortante e non semplicemente grottesca. Non è poi così sorprendente quindi che l’esperimento incontri degli inceppi, molto più sorprendente è invece che gli psicologi preposti a questa procedura si stupiscano del fatto che Sal pretenda di passare ancora più tempo con la moglie morta (non abbiamo contezza di come fosse la sua signora deceduta, ma il caso gli è stato propizio, offrendogli il corpo flessuoso assieme androgino e sensuale di Renate Reinsve). A questo punto però sceneggiatura e messa in scena si sono già aggrovigliate su loro stesse cercando di confondere le carte e supplire con atmosfere dark, indizi depistanti e sentieri interrotti alle falle strutturali, tenendo in serbo come ultima risorsa il trucco finale, che dovrebbe riscattare, attraverso lo stupore dello spettatore, le incongruenze accumulate durante al racconto. Anzi le ultime inquadrature, di un vacuo estetismo pittorico, trasmettono la spiacevole impressione che tutto il cervellotico apparato narrativo, con i suoi supposti interrogativi esistenziali, non fosse altro che il preambolo un po’ pasticciato del coup de théâtre finale (per altro, lasciatemi dire, a 25 anni dal Sesto senso di M.Night Shyamalan, piuttosto telefonato).  Spiace perché a poco a poco, fra situazioni improbabili e buchi di sceneggiatura, naufragano nell’inconsistenza anche le interpretazioni degli attori. Bernal, Bejo e Reinsve , in questa occasione e verrebbe da dire loro malgrado più belli che bravi, cercano, almeno inizialmente, di dare una sostanza dolorosa ai loro personaggi, ma via, via che la vicenda si involve, sembra perdano loro stessi fiducia nel progetto e si limitino al minimo sindacale di volti dolenti e compunti.

Lascia un commento