Vladimir ed Estragon sono tornati, solo che al posto di una desolata e spettrale campagna si trovano ora in uno spettrale e desolato carcere in via di dismissione. Lo stesso tempo sospeso, la stessa impotenza paralizzante, la stessa attesa vacua.
Le prime inquadrature sono campi lunghi sui diroccati falansteri di una prigione che sembra fondersi con la natura circostante, aspra e petrosa, mentre banchi di nebbia indugiano sulla sommità di corrose conformazione rocciose come sulle torri di guardia.
Aria ferma.
La notte prima dello sgombero di un vecchio carcere, quando già le guardie stavano compassatamente festeggiando l’abbandono della antica fortezza, giunge inaspettata la notizia che per i consueti intoppi burocratici, fin troppo frequenti e credibili nel bel paese per essere definiti kafkiani, la chiusura deve essere posticipata. Dodici detenuti, a cui poi si aggiungerà un ragazzo sperduto, non trovano ancora collocamento presso altri istituti e quindi devono rimanere per un tempo che si auspica breve, ma di fatto imprecisato, ancora nella vecchia struttura sotto la sorveglianza di un piccolo manipolo di guardie. Carcerati e secondini prigionieri di un’attesa indefinita. Il detenuto La Gioia, boss malavitoso a fine pena, un Silvio Orlando che combina con alchimia sottile misura e ambiguità, ha buon gioco a dire a Gargiulo, l’ispettore capo delle guardie interpretato da Toni Servillo: “Dura la vita in galera eh?”
Il tema del confronto serrato che seguirà è posto : siamo tutti rinchiusi in un carcere, colpevoli e innocenti, anche se la distinzione fra i due poli diventa sempre più labile, in attesa di una agognata, quanto futile liberazione. Si finirà poi in un altro carcere.
Il rischio di una deriva metafisica, che inghiotta nel labirinto dei simboli e dei rimandi la narrazione, è evidente, ma Di Costanzo riesce ad evitarlo giocando su due fattori apparentemente opposti. Da un lato opera un processo di rarefazione che porta ad un livello di pura astrazione le immagini, intervallando le panoramiche aeree del carcere diroccato, con riprese grandangolari della ridotta centrale dove sono concentrati i prigionieri superstiti, prosciugando il colore fino al grado zero, senza però concedersi al rifugio del bianco e nero. Dall’altro modula la narrazione sul ritmo concreto dello scorrere stesso delle cose. O meglio, del suo cristallizzarsi nel senza tempo del carcere. I rituali della vita nella prigione, il ripetersi identico dei gesti sono ripresi in tempo reale, con una attenzione spiazzante ai dettagli: primi piani su spioncini che si aprono, su chiavistelli che girano, su scambi furtivi fra i prigionieri. Tutti particolari che, secondo una abituale sintassi cinematografica, sembrerebbero fare cenno verso sviluppi futuri, mentre invece ricadono muti in loro stessi, contribuendo però al crescere di una tensione reale che la vicenda narrata – l’abbozzo di una rivolta, placata dalla decisione di Gargiulo di concedere al boss di cucinare per i compagni – da sola non riuscirebbe a produrre. In un clima di violenza compressa, pronta ad esplodere, si svolge così il confronto decisivo fra il capo delle guardie e il boss: un conflitto immobile per il riconoscimento. Il terreno sembra quello hegeliano dello scontro fra le autocoscienze: il detenuto vuole piegare il potere ad accettare la necessità di venire a patti con i prigionieri. L’ispettore è determinato nel ribadire la distanza inattraversabile fra gli onesti e i criminali. Posto in questi termini il confronto non può che risolversi nella sottomissione (o nella morte, reale o simbolica, ha poca importanza) dell’uno o dell’altro, ma Di Costanzo compie un movimento trasversale, una sorta di salto del cavallo: si può uscire dallo stallo solo se non si pretende di vincere, solo se si esce dal proprio carcere interiore, solo se si riconosce l’umanità dell’altro. Il cupo orizzonte nichilistico si stempera e ci si può dimenticare anche di Godot, mentre La Gioia e Gargiulo passeggiano tranquillamente dopo aver raccolto assieme ortaggi e verdure nell’orto abbandonato della prigione e la camera si alza in un dolly panoramico per riprendere dall’alto il carcere non più livido, ma illuminato – come nella sequenza finale di Blade Runner – per la prima volta dal sole.
Un po’ facile, d’accordo, ma Di Costanzo ha il merito di non far seguire a questa scena i titoli di coda e comunque, anche lo spettatore, dopo più di 100 minuti di angosciosa attesa, aveva bisogno di una boccata d’aria, possibilmente non più stagnante.
Un’ultima annotazione, che è una buona notizia. Toni Servillo è guarito dalla sindrome di Jep Gambardella. Ça va sans dire, Servillo è il miglior attore italiano vivente, ma, perseguitato dal fantasma di Gambardella (o meglio, a causa dei suoi registi, perseguitati da quello spettro) rischia spesso di sprofondare nella gigioneria. Qui Di Costanzo sa disciplinarlo con misura e attenzione: ne viene fuori una interpretazione trattenuta, ma intensissima che controbilancia l’altrettanto condensata e vibrante recitazione di Orlando. Pure se il rapporto fra i due non deve far dimenticare che ci troviamo di fronte ad un film corale, come è esplicitato nelle bellissime sequenze della cena in carcere. Poteva avere anche ragione Sartre: l’inferno (la prigione, Huis Clos) sono gli altri. Ma Di Costanzo sembra aggiungere che dal carcere non si può uscire da soli.
