Fly me to the moon

Erano gli anni ’60. Gli anni delle Mustang cromate e fiammanti dove era da mammolette farsi montare le cinture di sicurezza, delle ragazze pin-up con le gonne a palloncino e monumentali acconciature cotonate, del Vietnam e della TV che riprendeva in presa diretta i combattimenti nella jungla, della guerra fredda e dei persuasori occulti della pubblicità (anche se il libro di Vance Packard è del ’57). Ed erano gli anni dei grandi razzi fallici puntati verso la luna e di quella follia che fu la corsa allo spazio. Solo che verso la fine di quel decennio l’emozione dei primi balzi verso il cielo si era alquanto diluita, e quindi i centri del Deep State, impersonati da Moe Berkus, un burlescamente mefistofelico Woody Harrelson nei panni di un potentissimo agente dei servizi segreti, decidono che ora di vendere agli americani lo spazio come fosse un detersivo che lava più bianco del bianco. Per questo Moe chiama Kelly Jones (Scarlett Johansson), la migliore del settore, pubblicitaria cinica e impudente al cui confronto gli altezzosi e sprezzanti uomini di Mad Man hanno la stessa capacità di convincimento e originalità di messaggio di: “Donne è arrivato l’arrotino”. E così la prima parte del film scorre via veloce. La nota di fondo delle schermaglie fra Cole Davis (Channing Tatum), l’ingessato  ingegnere capo del progetto, puro come un cherubino e rigido difensore dell’integrità della missione e la disinibita e spregiudicata Kelly che, in top e pantaloncini alla caviglia come minimo di due taglie più piccole rispetto alla propria, si rigira l’uomo come un calzino, è placidamente ovvia, ma le variazioni sul tema sono abbastanza divertenti, anche perché il gioco della verità (la missione spaziale) che può accedere alla realtà (ottenere i fondi necessari al progetto) solo attraverso la finzione (l’illusione della pubblicità che coinvolge consenso) è ben diretto. Nella seconda parte del film, approfondendo e complicando questo tema, la sceneggiatura vorrebbe fare un salto di qualità e, pescando negli stagni torbidi delle teorie del complotto, immagina che il solito Deep State voglia anche filmare un finto allunaggio, sempre nella convinzione non peregrina che il falso è spesso più vero del vero. Qui però, purtroppo, sceneggiatura e regia si incartano: salta fuori la macchietta di un regista gay, epigono di Stanley Kubrick, con una serie di mossette e battute scontate come la pioggia di novembre e con lo stesso potenziale comico, e, contemporaneamente, il rapporto fra Kelly e Cole vira, come era prevedibile, sul sentimentale spinto, dando via alle tracimazioni di melassa. Per fortuna un finale scassone, dove la fanno da padrone Scarlett, Woody Harrelson e il gatto Birba, rimette in carreggiata la commedia che stava impantanandosi, mentre lascio alla vostra fervida immaginazione ipotizzare come si conclude la storia fra la bella pubblicitaria e l’austero Cole. Insomma, per una sera d’estate torrida – tenendo anche conto dell’aria condizionata in sala – il film di Greg Berlanti si lascia di sicuro vedere: ha un buon ritmo – se si eccettuano i voli nella notte stellata con il P51 Mustang di Cole e i suoi discorsi su Dio nello spazio che stimolano l’abbiocco – alcune situazioni e battute riuscite e soprattutto Johansson e Harrelson, che si prendono sulle spalle il film e lo portano a compimento. Non si può nascondere però la presenza di una pesante zavorra. Channing Tatum è, a dirla tutta, imbarazzante: passi che per tingerli i capelli di nero si è ricorsi all’acconciatore di Berlusconi e per i ridicoli lupetto color pastello che non abbandona mai, ma il fatto è che, gonfiato così com’è di steroidi e con una staticità d’espressione che non muta neppure sotto elettroshock, Tatum risulta plausibile come un biglietto da 3€ e convincente come un bambolotto di plastica. Alla faccia del fasullo più vero del vero. C’è da dire, per riscattarlo almeno un po’, che la sceneggiatura gli assegna la battuta più romantica del film. Perché erano gli anni ’60, gli anni in cui innamorandosi perdutamente al primo sguardo di una sconosciuta seducente come Scarlett Johanson ci si poteva anche avvicinare per dirle candidamente che non si era mai vista una donna così bella e poi andarsene senza dire una parola, a smaltire la propria malinconia al chiar di luna, sicuri che non la si sarebbe più rivista, senza rischiare di prendersi una denuncia per molestie verbali il giorno dopo.

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