Inganno

“La parola è un gran dominatore, con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere” (Protagora, Elogio a Elena).
Non potrebbe cominciare in modo più esplicito ed assieme più enigmatico il nuovo film di Desplechin: una bellissima Lea Seydoux dietro le quinte del teatro Bouffes du Nord guarda in macchina seducente, continuando un discorso iniziato fuori campo. Nell’inquadratura successiva, senza stacchi apparenti nel parlato, è in uno studio che descrive minuziosamente ad occhi chiusi al suo amante, per obbedire ad una sua richiesta mentre non sapremo mai come lui, per continuare il gioco invertendo le parti, saprà descrivere la donna chiudendo gli occhi. Che cosa è reale? Le quinte teatrali o l’ambiente dove si trovano gli amanti? O non è forse questo uno spazio di finzione, il palcoscenico mentale dove si mette in scena una rappresentazione ingannevole?
Philip, lo stesso nome di Roth, lo scrittore tanto amato da Desplechin, autore dell’omonimo testo da cui è tratto il film, è un romanziere americano che si è autoesiliato a Londra, lavora ad un libro in un piccolo appartamento, siamo nel 1987. Un po’ un buen retiro per concentrarsi sulla scrittura, un po’ uno studio di psicanalista, un po’ un boudoir per illustrare la filosofia implicita del nostro autore. Lì incontra la sua amante, anche se il sesso sembra accessorio, nella migliore delle ipotesi un pretesto per la parola, un fiume di parole che scorre in mille rivoli diversi e che ha come tema la divagazione: il fallimentare matrimonio di lei, l’antisemitismo degli inglesi- un ossessione per lui –,il quintetto D.956 di Schubert, la creazione artistica, giochi di ruolo dove lei deve fingere di essere lui e poi l’amore, l’adulterio, la morte. E come se non bastasse, lo spazio ristretto della stanza si sfonda nella proiezione del ricordo; irrompono, senza soluzioni di continuità apparenti, altre donne e altri discorsi: una vecchia amante cecoslovacca, una studentessa innamorata e depressa, addirittura un tribunale di donne che accusa (non senza ragioni) lo scrittore di misoginia. L’errare della narrazione, oltre che sull’oscillazione dei luoghi, fa leva anche sull’indeterminatezza dei tempi: più volte i due amanti si ritrovano in un pub come se si trattasse di un ritorno di fiamma dopo una cesura del rapporto, anche se rimane nel vago il fatto che ci si trovi davanti a situazioni diverse o alla ripetizione della stessa. Un temporaneo ancoraggio alla realtà potrebbe sembrare il momento in cui lo scrittore, uscendo dallo spazio affabulatore del suo studio, torna a casa dalla moglie remissiva e accogliente, ma anche in questo caso, seppur in modo più convenzionale, il quadro si incrina e attraverso la breccia di una telefonata oltre oceano irrompe il nuovo racconto di una donna, una vecchia amante di Philip, che aspetta in ospedale il responso angosciante di una tac. Ancora un’occasione perché lo scrittore possa, sempre con la sua disponibilità all’ascolto, condiscendente e melliflua, appropriarsi di un altro racconto disperato.
Desplechin, potendo contare sulla sensibilità complice dei suoi attori, evita la trappola di un cinema teatrale. L’uso del campo contro campo è, ad esempio, episodico, non certo strutturale, ma volutamente espressivo. E’ invece un piacere per gli occhi scoprire ogni volta da dove la cinepresa inquadrerà i nostri protagonisti coinvolti nella loro ininterrotta conversazione, con continui scavalcamenti di campo, cambi di prospettiva e di distanza fra la camera e il personaggio, così come l’anomalo uso del formato panoramico “scope” per filmare gli interni crea delle prospettive avvolgenti, rendendo la calda luce dell’intimità ed assieme creando degli effetti di spaesamento accentuati dai cambi di scenografia che sovrappongono lo spazio del ricordo con quello della supposta realtà, ma anche quello della fantasia letteraria (“Si sta bene qui con te quando nevica. È meraviglioso) con l’artificio che smaschera se stesso: una neve smaccatamente finta che scende sui due amanti abbracciati. Il risultato non è esente da un certo intellettualismo, che può apparire, soprattutto nella prima parte del film, fintanto che non ci si lascia prendere dal flusso delle digressioni, un po’ respingente, ma comunque perfettamente in linea con gli intenti della poetica di Roth. L’insistenza subdola e non priva di una ostinazione lasciva con cui Phillip (in queste parti Denis Podalydès è straordinario) manipola la sua amante e la spinge a raccontarsi e assieme l’oscillazione fra la resistenza guardinga, pronta a scambiare sesso per silenzio, e la sfrontatezza ciarliera con cui lei si concede, rendono in modo plastico l’idea dell’autore che vive vampirizzando i suoi personaggi, di una scrittura impudica e parassitaria rispetto al reale che dissangua per poterlo ricreare nella finzione. «Nel cuore della natura di uno scrittore c’è il capriccio. Curiosità, fissazioni, isolamento, veleno, feticismo, austerità, leggerezza, perplessità, infantilismo, eccetera. Il naso nella cucitura di un indumento intimo: ecco la natura di uno scrittore. L’impurità».
Solo che, alla lunga, in questo raffinato gioco se c’è una vittima questa è proprio l’erotismo, la sensualità dei corpi che si sfiorano e, con il loro linguaggio muto, si raccontano. Tutto, invece, è parola, tutto è detto, tutto è esplicitato, sezionato, sviscerato. Pur nella sua struttura fluida, dai punti di riferimento instabili, nel film non sembra esserci spazio per ambiguità e mistero. È difficile pensare ad un racconto che, ruotando intorno all’amore (e al sesso) per quasi due ore, sia più elegante, ma assieme parco di emozioni e cerebrale come quello di Desplechin. E questo, avendo a disposizione Lea Seydoux, in assoluto stato di grazia, che riesce ad essere, in una stessa sequenza, assieme timida e audace, romantica ed ironica, complice e sfuggente esprimendo una carica di sensualità ora sottile e ingenua ora travolgente, più che un inganno è uno spreco.
E non è così peregrino quindi il sospetto che tutto questo parlare intorno all’amore, all’adulterio, al sesso, alla letteratura e all’arte, non sia altro che l’esigenza di coprire l’ansia che assedia il narcisismo di Phillip. C’è solo un momento in cui, al di là delle cortine fumogene delle sue schermaglie ciniche o ironiche, si coglie con evidenza la sua sincerità: quando la sua amante gli chiede perché prende male il suo 59esimo compleanno: “Perché presto la vita finirà, ecco perché. Sarò morto”.

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