Come in un film di Wes Anderson una giovane ragazza dai grandi occhi azzurri, in un completo desueto a pois, sta al centro dell’inquadratura, mentre gli arredi e le modanature in legno che spiccano sullo sfondo sono ricoperti da una patina retrò. La ragazza è Margaret Qualley, sgusciata fuori dall’accampamento hippy di Charles Mason in “C’era una volta Hollywood”; ha dismesso il fascino un po’ perverso da ninfetta figlia dei fiori con cui cercava di sedurre Brad Pitt, per assumere quell’espressione di ingenuo stupore che l’accompagnerà per il resto del film e sta per essere assunta dall’altezzosa Sigourney Weaver/Margaret in una delle più prestigiose agenzie letterarie di New York, dove la selezione del personale non sembra poi così accurata visto che Johanna (così si chiama nel film la protagonista), priva di referenze e del tutto a digiuno di conoscenze nel campo, non sembrava aver fatto, durante il colloquio, una figura così brillante. D’altra parte Sigourney è troppo impegnata nel cercare di frenare il nuovo che avanza, con un argine fatto di desuete macchine da scrivere e dittafoni, per preoccuparsi di queste quisquiglie. Per non sbagliare, Johanna è comunque confinata in un ufficietto ad un compito ingrato quanto scavare buche per poi riempirle: deve leggere le montagne di lettere che gli ammiratori spediscono a Salinger, il più prestigioso cavallo di razza dell’agenzia, annotarsi eventuali messaggi di squilibrati e poi distruggere sistematicamente il tutto, ringraziando con asettica formalità i mittenti. Non proprio un impiego di concetto, ma, ci viene detto (altrimenti dal comportamento di Johanna non avremmo potuto intuirlo) che la ragazza è un’aspirante scrittrice che viene fresca, fresca da Berkley dove ha lasciato un fidanzato musicista, e l’agenzia è il primo passo verso la scalata del successo.
Siamo nel bel mezzo degli anni ’90 e il regista, Philippe Falardeau, fa leva con grazia sulla morbida nostalgia per il passato prossimo. L’agenzia in cui è assunta Johanna sembra la sede staccata newyorkese di French Dispatch: smartphone e ebook non esistono neppure nei più infernali incubi distopici degli agenti letterari, le email potrebbero essere ancora considerate una moda passeggera, l’unico computer in ufficio è stato scelto secondo rigorosi criteri estetici e Sigourney Weaver si rivolge a internet con quella stessa sufficiente diffidenza con cui i conducenti di fiacre potevano guardare a fine ‘800 le prime schioppettanti automobili: “Queste trappole non avranno futuro”.
Poste le coordinate del racconto, Falardeau conduce con un certo garbo il coming of age di Johanna diviso fra le schermaglie amorose con un giovanotto, scrittore di belle speranze, e il suo lavoro all’agenzia, con i suoi piccoli imprevisti, gli accigliati rimproveri di Margaret, le magre soddisfazioni e i buffi contrattempi. Coccolata dall’affetto paterno dei suoi colleghi, ma tenuta a distanza da una algida Margaret, Johanna gode anche l’inaspettata fortuna di ricevere bonarie telefonate da Salinger, che si gioca la sua fama di intrattabile misantropo dispensandole consigli letterari non richiesti, con l’affabilità di un vecchio zio un po’ stordito. La cosa non sembra però impressionare più di tanto Johanna, che, a tre quarti del film, non ha ancora letto Il giovane Holden. Falardeau, più che citare, strizza l’occhio alle atmosfere di alcuni film di culto: Johanna ha l’avveduta ingenuità di Amélie, come Nino, l’amore di Amélie, raccoglie le storie degli anonimi personaggi delle foto tessere, così Johanna colleziona le paranoie dei corrispondenti di Salinger; la nostra aspirante scrittrice investe poi probabilmente una settimana del suo stipendio per mangiare rapita un cheesecake all’Woldorf-Astoria, così come Holly passeggiava incantata da Tiffany (se qualcuno non avesse capito il collegamento, c’è Moon River di sottofondo per indirizzarlo), ma soprattutto, anche se l’avventura di Johanna è tratta da una “storia vera”, è ‘Il diavolo veste Prada’ il riferimento paradigmatico.Falardeau ne gira una versione più pacata e irenica: la Qualley, ingessata in questi vestitini a mezza strada fra Piccole Donne e Alice nel paese delle meraviglie, non ha la vitalità e il fascino di Anne Hathaway, mentre Sigourney Weaver, che fornisce per altro un ottima interpretazione, supera di una spanna Meryl Streep/Miranda in fatto di alterigia snob, ma perde su tutto il fronte per quanto riguarda la cattiveria: la principale di Johanna, sotto il cipiglio sprezzante e le ciocche di capelli bianchi alla Cruella de Vil nasconde anche un cuore, organo di cui Miranda non conosce neppure l’esistenza.
Falardeau si fa un punto d’onore di girare tutto il racconto, anche i suoi momenti più drammatici, con soave levità, prendendosi il rischio (fondato) di risultare a volte superficiale; le vicende reali sono inframezzate da frammenti onirici e dal petulante intervento dei mancati corrispondenti di Salinger che, ripresi nel mezzo della loro vita di ogni giorno, sguardo verso la macchina, ci recitano le lettere che Johanna legge nel suo studio, dando a noi spettatori la gratificante illusione di essere il noto scrittore, verso cui le lettere sarebbero indirizzate. Illusione consolidata dal fatto che, sentendone il contenuto, condividiamo senza remore la decisione di Salinger di mandarle preventivamente al macero.
Ne viene così fuori un film carino, educato (Johanna ad un certo punto non ce la fa più di rispettare il diktat villano di non rispondere agli ammiratori di Salinger e lo fa di suo pugno, combinando guai), esile, esile.
Se non avete niente da fare una sera, si può anche vedere. O, magari, ci si può anche mettere comodi in poltrona per rileggere Il Giovane Holden.
