Nostalgia

“L’irreversibile mostra come l’uomo non può ritornare sui suoi passi, incamminarsi sulle tracce dell’ieri, rivivere o ripetere, nella sua forma primitiva, un’esperienza antica, fare rinascere il proprio passato; l’irrevocabile, all’inverso, esprime un passato che non può essere annientato, l’uno è un passato fugace, l’altro un passato caparbio […] Ci si scontra così con due impossibilità inverse: rendere attuale un passato troppo passato, consegnare al passato un passato troppo presente”. La storia che ci racconta Martone nel suo ultimo film si trova all’incrocio paradossale fra questi due volti contraddittori del passato di cui ci parla Jankelevitch. Da un lato la malinconia, la nostalgia, i fantasmi evanescenti del rimpianto per un mondo che ci ha abbandonato, dall’altro il rimorso che ci insegue, gli spettri di un passato che non passa e ci angustia.
Un uomo ritorna in una città che dal terrazzo del suo hotel sembra tanto sterminata quanto anonima, come la camera d’albergo dove dispiega con cura i suoi abiti. A poco a poco, seguendo il suo vagare notturno fra i vicoli, i palazzi sbrecciati, le piazzette affollate di immondizie e motorini ci addentriamo in una Napoli che come Felice stentiamo a riconoscere. Martone non ha fretta nell’introdurci nella storia del suo protagonista, indugia su riprese silenziose, ci rende palpabile il suo sentimento di estraneità che si materializza nell’impaccio con cui la sua lingua materna riaffiora stentata, marchiata da un accento straniero. Felice (uno straordinario per intensità e compostezza Pierfrancesco Favino) è tornato dopo un esilio di quarant’anni fra il Medio Oriente e l’Africa per rivedere la vecchia madre che trova sepolta in un basso buio e maleodorante, quasi cieca, ma a suo modo, nella commozione dell’incontro, ancora risplendente dell’antica bellezza. Non sappiamo perché l’abbia abbandonata, non sappiamo neppure perché è tornato, ma è attraverso il rapporto con la madre, l’accudimento premuroso e a suo modo teneramente inflessibile che Felice riesce a riannodare un rapporto con il suo passato; si riconosce nella sua vecchia città che dai toni scuri, umidi delle prime scene, assume i colori saturi e brillanti della nuova casa con giardino che l’uomo ha preso per gli ultimi giorni della madre. Ed è come se questa Napoli che si è fatta solare, seppur sempre compressa negli spazi angusti e schiacciati contro la roccia ocra del rione Sanità, una Napoli che ricorda una labirintica città d’Oriente lontana dal mare, avesse fatto il miracolo di far scorrere all’indietro il flusso del tempo. “Questa città è incredibile, nulla sembra cambiato, tutto è rimasto uguale”, dice Felice alla bella moglie che lo aspetta paziente al Cairo. E infatti i flashback girati in Super8 di Felice con il suo amico del cuore Oreste che sfreccia per il quartiere con la sua Gilera fiammante, via verso il mare, si sovrappongono alle riprese dell’uomo maturo che rivive, sempre in sella ad una vecchia moto che ha recuperato, le antiche esperienze. Ma fotogrammi appena accennati fra una sequenza e un’altra di un volto segnato, come quello di Felice, dagli anni introducono, prima impercettibilmente, poi in modo sempre più marcato, l’irrevocabile. L’amico del cuore di Felice, il suo compagno di scorribande era anche il suo personale Lucignolo, assieme a lui, ancora adolescente, Felice aveva compiuto i primi furti, fino alla tragedia di un colpo finito male. Da qui la fuga, da qui il rimorso per il delitto, ma, anche e soprattutto, per aver abbandonato l’amico, che nel frattempo è diventato il boss della camorra che controlla il rione.
C’è qualcosa di spaesante nel modo in cui Martone conduce lo sviluppo dell’azione, l’uso rimarcato delle elisse (vediamo la madre di Felice sorridente, illuminata dal sole nel suo giardino e, nella sequenza successiva, la sua bara nella chiesa del quartiere) consegna il tempo della narrazione ad una dimensione aleatoria. Quanto tempo è passato da quando Felice è tornato? Qualche settimana? Qualche mese? O di più? Felice sembra quasi stregato in un presente vischioso in cui, sereno, si abbandona. Ed è forse questa rilassatezza la cosa più affascinante e, a suo modo, irragionevole, delle atmosfere che il film ci consegna: l’idea che, non solo, si possa ritornare indietro nel tempo, ma addirittura arrestarlo nell’indolenza di una atemporalità pacificata. C’è infatti qualcosa di irrazionale nel comportamento di Felice che cerca di riallacciare i rapporti con il vecchio compagno della giovinezza, che rifiuta anche solo di ipotizzare come gli anni possano aver scavato fra loro un solco inattraversabile, che pretende d’essere accettato come il ritorno ingombrante del rimosso del passato. C’è quasi un deficit di credibilità nell’ingenuità disarmante con cui Felice si inserisce nel contrasto aspro fra la rete di intimidazione e paura con cui Oreste controlla il quartiere e l’oasi di tenace resilienza che Don Luigi, un sacerdote determinato e combattivo, cerca di contrapporgli. Felice si muove come un novello Candide fra le fazioni opposte, racconta con candore ai residenti del quartiere, che l’ascoltano costernati, della sua amicizia con Oreste e di ricordi che dovrebbero essere taciuti, come se non avesse mai vissuto in quelle zone, come se nulla sapesse della camorra e dei suoi metodi, come se il suo ritorno, il rischio implicito di una sua denuncia del passato, non fosse un macigno che pesa sulla sua testa. Soprattutto, pertinace nella sua volontà di far ritornare indietro le lancette del tempo, in Felice non c’è, come in Don Luigi, una ribellione nei confronti di un presente degradato, ma un adagiarsi in esso, una ostinazione passiva a non dare ascolto ai segnali della tragedia che si moltiplicano. Ma, come saggiamente gli ricorda il sacerdote, il tempo non ritorna (fatta eccezione forse solo per il rimorso), tutto cambia e i cuori, anche quelli legati dall’amore più fraterno, si richiudono.
C’è qualcosa di irrisolto in questo bel, a tratti struggente, film di Martone. Nell’esergo iniziale il regista ricorda Pasolini “La conoscenza è nella nostalgia. Chi non si è perso non possiede”. Pasolini si riferiva probabilmente alla nostalgia per il passato di una civiltà contadina distrutta dai processi di modernizzazione, una nostalgia che diventava, nel rimpianto per un mondo che muore, critica spietata di un oggi deprivato e speranza utopica per l’avvento di un rinnovato domani.
Credo che uscendo dal film di Martone si abbia però un’impressione opposta. Pretendere di possedersi interamente, di colmare lo scarto che, irreversibile, ci distanzia dal nostro passato, di riscattare ogni estraneità da se stessi, non solo è un illusione, ma è ciò che, irrimediabilmente, ci perde.

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