L’incipit è quello di un racconto gotico: un bianco e nero spento ritrae una Londra ottocentesca fumosa e grigia: uno scienziato evidentemente alterato (impeccabile William Defoe), dal volto deforme, devastato da cicatrici e ricuciture, dedito a blasfemi esperimenti che producono polli con il volto di maiali e anatre cani, alleva Bella, un po’ prigioniera, un po’ figlia diletta, un po’ cavia da esperimento: una creatura aliena, con il corpo esile di una ragazza, ma movenze meccaniche da marionetta (Emma Stone, straordinaria per potenza espressiva, al vertice della sua carriera). L’obiettivo fish-eye curvando le prospettive accentua l’effetto irreale, da incubo allucinato, mentre, nella più consueta tradizione del genere, un giovane (Ramy Youssef), ingenuo e innocente, viene introdotto nella casa laboratorio del professore, con il compito di seguire e registrare i progressi di apprendimento della ragazza che racchiude in un corpo seducente di una giovane donna, il cervello di un infante. E ovviamente si innamora perdutamente di lei. Le coordinate del racconto sembrano poste: il demone della conoscenza che spinge ad oltrepassare le frontiere del moralmente lecito porta l’uomo a coltivare il sacrilego miraggio di intervenire ed interferire nei processi della creazione, di farsi Dio. Poi però qualcosa va storto e scardina la narrazione da quei binari che sembravano prefissati. Anche Bella si ritrova empirica sperimentatrice e, complice, non a caso, una mela opportunamente manipolata, scopre la propria sessualità: “Bella scopre di essere felice quando vuole!”. Il sesso non è forse in un’Inghilterra cupamente vittoriana la verità più occultata e profonda? E lo schermo a questo punto esplode in una fantasmagoria di luci e colori che coincide con il viaggio di iniziazione di Bella in fuga dai suoi protettori, mentre insegue, in compagnia di un torbido ed esilarante seduttore (Mark Ruffalo perfetto nella parte di un avvocato sensuale e meschino), la via dell’autoformazione.
Basato su un romanzo di Alasdair Gray, visionario, eccessivo, provocatorio, esilarante, assieme cinico e romantico, Poor Things è una metafora strampalata ed ironica sull’umana volontà di conoscenza e sulla sua stretta relazione con il potere emancipativo del sesso. In fin dei conti Eva non colse il frutto dell’albero della conoscenza segnando così la possibilità di uscire dal recinto protetto e sinceramente barboso del paradiso terrestre per farci diventare finalmente “umani”? E così anche Bella, come una ingenua e spregiudicata Alice si avventura, giovane esploratrice, in un mondo delle meraviglie che appare, dopo la tetraggine di Londra, rutilante e sfrenato come le sue sperimentazioni erotiche: Lisbona, una crociera nel Mediterraneo, Alessandria immaginate in un sogno lisergico di Tatlin o Sant’Elia, ispirato da una straordinaria estetica steampunk e retrofuturista, con goffe teleferiche avveniristiche che solcano l’irreale cielo cinabro della città lusitana, piroscafi corazzate, vertiginose torri di sabbia che poggiano su fosche voragini di sofferenza. E poi Parigi, dove in un sordido bordello, Bella perfeziona, nella sua attività sperimentale di prostituta, la conoscenza dello spirito umano, prima di ritornare a Londra per scoprire le sue vere origini e concludere il suo percorso di formazione.
Lanthimos aveva finora diretto cupi apologhi sulla crudeltà insensata che si cela nella profondità dell’animo umano, qui, non rinunciando al suo tradizionale humour noir, ma rendendolo però meno aspro e compiaciuto, si prende gioco del suo stesso pessimismo, scompagina le carte, ubriaca lo spettatore con invenzioni visive e giochi di prestigio ottici, ci introduce in una realtà surreale, come se fosse una nuova origine del mondo, reinventato ed esuberante, si rivela, soprattutto, più condiscendente e comprensivo nei confronti dei suoi personaggi e dei suoi spettatori: “Sono una sperimentatrice imperfetta” si autodefinisce Bella. In fin dei conti, nei nostri momenti migliori (ad esempio quando saltiamo da un film all’altro alla Mostra del cinema al Lido di Venezia) non lo siamo anche noi stessi?

Una mela opportunamente manipolata!
Sensate esperienze… Certe dimostrazioni!
Emma Stone è davvero molto brava, il film decisamente più godibile rispetto ad altri di Lanthimos, inevitabile riandare al capolavoro di Bulgakov “Cuore di cane”, anche in quel caso l’evoluzione della creatura prende direzioni imprevedibili.
Sì, anche Preobrazenskij e il suo assistente compivano esperimenti blasfemi che ricordano quelli del creatore di Bella. Lì però Pallino, dopo molte peripezie, torna alla sua natura canina, mentre Bella, in linea con la struttura del romanzo di formazione, quale è in effetti il film, diventa finalmente se stessa, cioè quello che già era: una inesausta sperimentatrice, solo che rischiarata hegelianamente, e ça va sans dire, parodisticamente, dalla consapevolezza. In altre parole più cinica e disincanta, come lo siamo noi tutti (almeno a partire da una certa età, quell’età che ipocritamente si chiama “della ragione”). Certo, fra le due nature di cui è costituita, Bella rigetta quella della donna sottomessa, ribellandosi all’ex marito, e sceglie quella dell’onnipotenza del desiderio del bambino. Ma non per questo va in giro per il mondo a cercare di salvare i diseredati o a lottare per i diritti delle donne (ci sono letture femministe e progressiste di Poor things, che mi lasciano a dire il vero un po’ scettico), ma torna a coltivare il proprio giardino.
Un po’ come Candide di ritorno dalle sue avventure. Non più troppo candida.
Sì, sicuramente, Lanthimos si diverte un mondo a giocare con rimandi e citazioni, lasciando aperte molte porte all’immaginazione. Parte del fascino del film nasce proprio da questo.
Le letture femministe fanno ormai tendenza, lo chiamano anche “pink washing” quasi a nobilitare questo ostinato tentativo di vedere quello che non è. Concordo sull’ affinità con Candide. Grazie