Alexandre Payne ci fa entrare in punta di piedi, con discrezione, non disgiunta da una nota lieve di malinconia, nel suo nuovo film. Le immagini un po’ velate, come se fossero riprese da vecchie ottiche analogiche, di interni deserti, la luce naturalistica e appannata che rende i colori pastosi e mai saturi, la musica dolciastra di Damien Jurado, molto country New Hollywood anche se composta nel 2014, riescono a ricreare le atmosfere del cinema ribelle degli anni ’70, di Hal Ashby, Peter Bogdanovich, Arthur Penn (direttamente citato con una clip di Piccolo Grande Uomo) e da quegli stessi anni Payne riprende il grande topos della vita degli adolescenti nei prestigiosi college privati e public school anglosassoni, inserendosi nello spazio intermedio fra il rigore ipocrita e sadico e la rabbia repressa, pronta ad esplodere, di If di Lindsay Anderson e l’eversione strampalata di Animal House. Solo che al posto del carismatico prof. Jennings del film di Landis, un Donald Sutherland, pronto a corrompere con spinelli e letture divergenti dei classici i suoi studenti, si presenta, stesso completo in velluto marron, ma 10 cm di altezza in meno e dieci chili in più, Paul Giamatti/prof. Hunham, Malleus Discipulorum del Liceo Barton, professore di storia antica, giustamente disgustato dall’ignoranza stolida dei suoi studenti e del tutto sprezzante nei confronti dei loro turbamenti adolescenziali. Il prof. Hunham ha tutta una sua teoria sul ruolo della centralità del discente nel processo di formazione, intendendola alla maniera della centralità del bersaglio nel tiro a segno, e ritiene suo dovere forgiare a colpi di martello l’indocile carattere dei suoi allievi. Bisogna dire una boccata di ossigeno in un’epoca inflazionata da fascinosi professori di filosofia, saggi come maestri zen e più anticonformisti di Majakovskij, guide spirituali blasé dei propri studenti adoranti (ogni riferimento ad Alessandro Gassmann e alla sua serie televisiva è puramente casuale). Ovviamente la popolarità del prof. Hunham non svetta ai primi posti nel liceo, non solo fra gli studenti, ma anche nel corpo docente dove il suo temperamento inflessibile è una denuncia neppure troppo tacita dell’atteggiamento compromissorio, se non proprio servile, dei più nei confronti dei genitori degli allievi, soprattutto dei più assidui finanziatori dell’istituzione. La scarsa malleabilità di Hunman e la sua sovrana indifferenza nei confronti delle direttive buoniste della dirigenza della scuola gli procurano l’ingrato compito di docente sorvegliante di un gruppo di allievi, per un motivo o per l’altro, posteggiati dalle famiglie, durante le vacanze natalizie, nell’istituto deserto. Lo scenario è così preparato per indagare la relazione fra la ruvida intransigenza di Hunman e l’insofferente malessere di Angus, l’unico studente che rimarrà alla fine incarcerato per tutte le vacanze nella scuola, secondo il modello sperimentato della formazione reciproca, per cui, Socrate docet, in un genuino rapporto educativo, maestro e discepolo imparano reciprocamente l’uno dall’altro ed è solo smantellando le proprie difese protettive ed aprendosi alle ragioni dell’altro che si può realmente crescere e divenire se stessi. Il tutto complicato/facilitato dal terzo vertice spiazzato della relazione, Mary, la capo cuoca di colore della scuola, sepolta nel suo dolore e nel suo risentimento per la morte del figlio nelle risaie del Vietnam. A parte il plot abbastanza scontato, non è male l’idea di raccontare questi tre personaggi come tre “scarti” di un mondo che procede a velocità diversa e afferma valori in cui nessuno di loro, seppur per motivi differenti, si riconosce; spinti ai margini dalla vita, ciascuno perso nei propri rancori e nella propria solitudine che mascherano, a seconda dei casi, di ribellione, misantropia, cinismo. E senza dubbio, Paul Giamatti, impeccabile nel suo sarcasmo sferzante, ma anche nella sua umanità a malapena celata, e anche gli altri interpreti, Da’ Vine Joy Randolph nella parte di Mary e il bravo esordiente Dominc Sessa, ce la mettono tutta per accreditare questa intuizione di regia, solo che la sceneggiatura non li supporta, eccedendo con le iniezioni di sentimentalismo che si accentuano nel finale. Non giova una durata troppo dilatata per uno sviluppo di cui si era intuito l’andamento fin dalle prime battute e neppure il fatto che lo sceneggiatore David Hemingson voglia spiegare tutto, caricando di drammaticità l’origine dello scontento dei suoi protagonisti. Per Angus non bastavano gli adolescenziali dissapori con la madre egoista, aggiungiamoci anche il padre adorato demente, mentre Hunman non poteva essere semplicemente un professore severo, ma giusto, che il lassismo arrembante dei tempi aveva trasformato in un ufficiale delle SS, ma doveva nascondere qualche trauma e qualche profonda ingiustizia patita nel suo passato. Si avverte quasi il timore della sceneggiatura che, se non venisse ampiamente giustificata con un determinismo psicologico spicciolo ogni idiosincrasia e ogni asperità del carattere dei propri personaggi, si potrebbe smarrire la loro carica empatica e soprattutto non risalterebbe più la bontà del loro animo, solo in parte offuscata dalle traversie di un destino cinico e baro. L’effetto è sicuramente quello di solleticare le ghiandole lacrimali del proprio pubblico, ma al prezzo – chiamatemi pure cuore di pietra – di un didascalismo pedante . E così, mentre Payne smarrisce per strada il felice equilibrio fra lieve malinconia e humor che aveva guidato la sua mano nel rimpianto Sideways, sempre con Giamatti, andando a finire dalle parti delle atmosfere stucchevoli de L’attimo fuggente, si avvertirebbe l’urgente bisogno di vedere John Blutarsky (in arte Bluto) irrompere selvaggio sulla scena per scombinare con uno sberleffo e una capriola l’agrodolce quadretto conclusivo.
